Maria Novella De Luca, la Repubblica, 05/09/09, 5 settembre 2009
SE TORNANO I CERVELLI
Fondi, rigore, competitività. Voglia di investire. Sulle strutture sì, ma soprattutto sulle menti. Sembra facile, descritta dai campus americani o dagli istituti di eccellenza europei, la ricetta per diventare paesi leader nella ricerca scientifica o in quella tecnologica, paesi da cui i cervelli non fuggono ma nei quali accorrono, e dove i soldi investiti sul sapere rappresentano le prime voci dei bilanci nazionali. In realtà chi dall´Italia ha fatto le valige per andare a lavorare negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia, in Spagna e adesso anche in Cina, spiega che dietro tutto questo ci sono selezioni rigorosissime e la regola, inappellabile, del "vinca il migliore".
Così mentre il Premio Nobel Rita Levi Montalcini ha rischiato di veder sfrattato il suo prestigioso istituto di studi sul cervello, e lo scorso anno 100 scienziati che nel nostro Paese volevano tornare sono stati respinti per mancanza di fondi, le voci di chi ormai vive "altrove" ci raccontano cosa vuole dire fare ricerca dove ci sono soldi, strutture, interesse. Pier Paolo Pandolfi, ad esempio, Direttore della Ricerca del "Cancer center" dell´Università di Harvard, spiega che nonostante gli anni bui dell´amministrazione Bush, e nelle ristrettezze attuali della crisi mondiale, gli Usa restano uno dei luoghi più ambiti per gli studiosi di tutto il mondo. Luogo di approdo di quel fenomeno che la sociologia chiama brain drain, fuga dei cervelli appunto, e di cui l´Italia detiene il primato tra le nazioni europee.
Romano, classe 1963, un curriculum che lo piazza ai posti più alti della ricerca genetica sul tumore, Pier Paolo Pandolfi comunica entusiasmo, passione, ottimismo e idee chiare. In particolare, dice, «anche in Italia sarebbe possibile tornare ad essere competitivi e attrattivi, non ci mancano né i talenti né le eccellenze, basterebbe avere delle leggi quadro, forti e precise e farle rispettare».
«Una cosa che tengo a precisare è che resto negli Stati Uniti perché qui lavoro bene, se in Italia mi offrissero le stesse condizioni forse tornerei, o andrei altrove. Anche su un´astronave - scherza Pandolfi - come quella di Star Trek, orbitante, purché su quell´astronave ci siano il mio team e il mio laboratorio, che è fatto di gente di tutto il mondo, cinesi, coreani, spagnoli, italiani, statunitensi. Per me ciò che conta è la battaglia contro il cancro. Poi potrei lavorare dappertutto...». Pandolfi spiega che in concreto il sistema americano si basa su 4 fattori. «Prima di tutto i finanziamenti federali, cioè pubblici, che avevano subito fortissimi tagli e limitazioni nell´era Bush e che adesso sono stati ripristinati da Obama. Fondi a cui si uniscono le risorse destinate alla ricerca dai singoli stati. Quindi un efficientissimo sistema di found raising attraverso le donazioni dei privati, che negli Stati Uniti possono detrarre dalle tasse il 100% di quanto destinano alla ricerca, e dunque imprese, singoli, fondazioni sono davvero molto generosi verso le istituzioni scientifiche. E mi chiedo perché un criterio così semplice non venga applicato anche in Italia».
Ma l´altro elemento fondante del sistema, ricorda Pandolfi, è «l´assoluto rigore e severità con cui vengono erogati i fondi». I soldi cioè vengono concessi dallo Stato sulla base di progetti presentati dalle università e dalle équipe di ricercatori, dopo un vaglio accuratissimo fatto da esperti che variano di continuo, in modo da evitare favoritismi e particolarismi. «Il risultato - conclude Pandolfi - è che davvero alla fine di questa selezione i soldi vanno ai più meritevoli, e questo crea una sana competizione tra istituti che cercano quindi di attirare a sé i ricercatori migliori...».
Un sistema che tra ombre e luci continua a funzionare, racconta anche Antonio Iavarone, oggi ricercatore presso il Columbia Medical Center di New York, "fuggito" negli Usa 10 anni fa insieme alla moglie e collega Anna Lasorella, dopo un famoso episodio di "nepotismo" ai loro danni avvenuto al Policlinico Gemelli di Roma. Un caso che Iavarone e Lasorella denunciarono pubblicamente, decidendo quindi di dimettersi dall´università cattolica e di "emigrare" a New York.
«Il punto non è fuggire, il punto è poter tornare. giusto, è doveroso che gli scienziati emigrino, bisogna andare dove c´è il sapere migliore, anzi io credo che i giovani italiani si spostino troppo poco - dice Iavarone - proprio con la paura che se lasciano il posto nella fila, in Italia non potranno più trovare una collocazione. un paradosso ma è così. Ciò che crea il brain drain di sola andata è proprio questo: non solo l´attrattività di paesi come gli Stati Uniti, la Spagna o l´Inghilterra, o la sfida di entrare in team dove la ricerca si fa sul serio ed è selettiva, ed è possibile aver stipendi dignitosi e non da fame. Ciò che ferma tutto è la consapevolezza di non poter tornare. Nelle università del nostro paese vige un sistema di nepotismo e corruzione per cui chi comincia ad entrare nell´ingranaggio non ne esce più per paura di perdere quella piccola rendita di posizione appena guadagnata. Non importa - aggiunge con amarezza Iavarone - avere titoli, master, specializzazioni ed esperienza, se sei uscito dalla fila non ci rientri più. Sono centinaia i casi di ricercatori che hanno provato a riprendere la carriera in Italia, dopo anni di successo all´estero, e hanno trovato le porte chiuse. Non hanno potuto far altro che emigrare di nuovo. Del resto a suo tempo ci aveva provato anche Renato Dulbecco, ma poi ha preferito restare in California».
Migranti dell´intelletto con il biglietto di sola andata, dunque. E questo nonostante l´Italia abbia varato alcuni anni fa un progetto ad hoc che mirava proprio a fermare la "fuga dei cervelli", anzi a spingere i talenti dispersi per il mondo a tornare nel nostro paese. Invece semplicemente ascoltando le parole di Andrea Lenzi, presidente del Consiglio Universitario Nazionale, e membro della commissione incaricata appunto di finanziare i progetti di ricerca per il "rientro dei cervelli", si capisce perché sono pochi a puntare sull´andata e ritorno. «La verità - ammette Lenzi - è che non c´è stata affatto la folla di domande che ci aspettavamo. Non c´è stata alcuna corsa da parte dei ricercatori emigrati verso l´Italia. A questo si è sommato un tale taglio di fondi che su 120 domande che ci erano arrivate, ne abbiamo potute accettare soltanto 24, perché il nostro budget era di tre milioni e mezzo di euro, e per far rientrare tutti quelli che avevano presentato un progetto valido ci sarebbero voluti 22 milioni di euro». Una prova ulteriore dunque che nonostante le campagne "apparenti" le casse della Ricerca restano vuote. Eppure, aggiunge Lenzi, «il blocco dell´università con i concorsi fermi da 4 anni, è così totale, che il rientro dall´estero rappresenta oggi l´unica possibilità di lavoro per i ricercatori, visto che almeno una piccola parte dei loro progetti viene finanziata».
Ben diversa, seppure non priva di ombre, la situazione francese, come spiega Mauro Mezzina, grande esperto di biotecnologie e direttore di ricerca del Centre National de la Recherche Scientifique. «I fondi che la Francia destina a questo settore sono impensabili per l´Italia e questo paese offre 1200 nuovi posti di ricercatore l´anno. Nella convinzione, credo, che il sapere produce ricchezza, come ha dimostrato l´enorme business del biotecnologie. Per essere competitivi , per puntare all´eccellenza ci vogliono mobilità e fondi. E la Francia, seppure con molte carenze, continua ad investire sulla conoscenza. Anche se è altrove che bisogna guardare - ricorda Mezzina- alla Cina ad esempio, che comincia ad attrarre anche studiosi europei, dopo aver per decenni lasciato emigrare i suoi migliori cervelli. Proprio un mio studente cinese, dopo essersi formato in Francia, 5 anni fa ha aperto a Shanghai la sua azienda di biotecnologie, con standard che nulla invidiano all´Occidente...».