Marco Imarisio, Corriere della Sera, 05/09/09, 5 settembre 2009
«DOTTO’, CE LA FAREMO?» L’OSPEDALE DEL COLERA ASSEDIATO 36 ANNI DOPO
Al Pronto soccorso sembra di essere in spiaggia. Davanti al gabbiotto dell’accettazione c’è una signora fasciata in un pareo che calza sandali infradito, un ragazzo con canottiera e costume da bagno, un signore abbronzato vestito con un elegante completo di lino bianco. Qualcuno è appena tornato da Santo Domingo, altri sono reduci da vacanze casalinghe, costiera amalfitana o sorrentina. Tutti vogliono informazioni, magari sottoporsi al test anche se non hanno alcun sintomo che lasci pensare al contagio.
L’ospedale Cotugno è simile a una vecchia fabbrica. Lunghe balconate di mattoni rossi, sbarre metalliche che separano ogni reparto, piloni in cemento che sembrano reggere il peso dell’intero edificio. Quarant’anni, e li dimostra tutti, anche se dentro l’aspetto è migliore. Corridoi ampi, stanzoni pieni di luce, grandi vetrate con vista panoramica. Dal presidio sulle colline di Napoli, nove divisioni di base suddivise in reparti specializzati in malattie infettive, è possibile valutare l’impatto e l’avanzata del virus H1N1, nel fisico delle sette persone ricoverate e nella testa degli altri, quelli che credono di essere malati e invece sono soltanto spaventati. «La prima lezione che si può trarre da questi giorni – dice il direttore sanitario Cosimo Maiorino – è quella sulla necessità di messaggi chiari e ripetuti. l’unico modo per evitare che gli ambulatori si affollino di persone che non hanno vera necessità di essere curate, impedendo soccorsi a coloro che ne hanno bisogno».
Siamo stati sfortunati. Lo dice la guardia giurata che sulla balconata al secondo piano ne ha vegliato l’agonia, lo ripete l’infermiere che gli ha abbassato le palpebre. Appoggiato ad una colonna dell’atrio, lo sussurra anche il medico che ha avuto in cura un paziente impossibile da curare. Anche se non è del tutto vero, Gaetano Damasco, che si è spento la notte scorsa nella stanza 207, verrà ricordato come la prima vittima dell’influenza A, speriamo anche l’unica. E oltre a non essere piacevole, la circostanza non è neppure senza conseguenze. Anche un primario navigato come Francesco Faella avverte la necessità di allontanare la sgradevole sensazione dell’eterno pregiudizio su Napoli. «Che il paziente sia morto, spiace ovviamente tantissimo. Ma questo non significa certo che la nostra struttura ospedaliera non sia all’altezza».
Non ci sono ancora assalti al Pronto soccorso, anche se ieri mattina a mezzogiorno era ben affollato. Ma qualche segnale di una psicosi strisciante comincia ad essere rilevato. Il primo a dirlo pubblicamente è Alfredo Ponticelli, uno dei pediatri più noti della città, assessore comunale alla Tutela della salute dell’infanzia. «Ogni giorno mi telefonano decine di genitori preoccupati per l’incalzare del virus. Benché senza fondamento, la paura avanza inevitabilmente con le notizie dei ricoveri e dei casi sospetti, che nella mente dei napoletani evocano i lutti del colera».
Era il 28 agosto 1973, 38 gradi all’ombra, umidità al 92 per cento. L’epidemia cominciò quel giorno, e il Cotugno divenne l’unico punto di riferimento plausibile in mezzo al caos. Un giornale tedesco lo definì «un tempio della speranza». Novecento ricoveri in una settimana, 127 dei quali positivi al vibrione. I medici, gli infermieri e tutto il personale rimasero in quarantena con gli ammalati, dormendo negli sgabuzzini per le scope o nei sotterranei. Non tutti i giudizi furono lusinghieri. Fecero scalpore le accuse della biologa inglese June Chambers, che una volta dimessa pubblicò un lungo articolo sul Times . Titolo piuttosto esplicito: un ospedale da incubo. Comunque sia, da quell’estate, nel dialetto del rione Sanità la parola Cotugno è diventata sinonimo di malattia infettiva, una parte per il tutto. «Resto convinto che quell’emergenza sia stata ben gestita. Noi facemmo la nostra parte, le istituzioni ci aiutarono». All’epoca Faella era un giovane infettivologo di 27 anni, oggi è il primario della divisione di malattie infettive. «L’unico punto in comune tra le due vicende è l’allarmismo. Tra poco tempo nessuno si ricorderà più di questa influenza. Basta stare calmi, non drammatizzare». Lo sguardo del primario è rassicurante, intonato all’ambiente che lo circonda. Tutto a posto. A parte la signora dallo sguardo spiritato che da circa cinque minuti gli tira la manica del camice ripetendo in continuazione un’unica domanda. «Che dice dottore, ce la faremo?».