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 2009  settembre 05 Sabato calendario

OGNI IMPRONTA E’ UN MESSAGGIO



Gli indigeni dell’Australia del Sud, racconta James G. Frazer, credono di poter azzoppare un uomo se mettono sulla sua orma pezzi di vetro; nell’Africa del Nord, invece, se una donna desidera legare a sé il marito, o l’amante, prende un po’ di terra dall’impronta del suo piede destro. L’impronta è un oggetto strano e misterioso. Possiede infatti la prerogativa di essere qualcosa che si forma - sul terreno, sulla sabbia, su un pavimento -, e quindi di cui ci si può appropriare, e insieme è qualcosa che indica una distanza. Traccia, resto e orma, manifestazione di presenza in assenza, l’impronta è un oggetto antropologico e anche religioso, come dimostrano la Sacra Sindone di Torino o la Veronica romana: tracce su un tessuto.

L’impronta è meno di un’immagine, perché è un campo di tracce indescrivibili, ed è più di un’immagine perché manifesta qualcosa di assente in quanto reale presenza. Sia che si tratti del lenzuolo con le impronte del Cristo, che di una mano dipinta o impressa su una parete di caverna, l’impronta possiede quella che Walter Benjamin definiva come aura: «Apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina».
Nel 1997 Georges Didi-Huberman e Dedier Semin allestirono al Centre Pompidou di Parigi una memorabile mostra dedicata a L’Empreinte, con opere contemporanee da Vito Acconci a Gilberto Zorio. Il catalogo, che comprendeva un lungo saggio di Didi-Huberman, si esaurì in poco tempo. Ora a dodici anni di distanza il lungo scritto dello storico dell’arte e filosofo francese viene tradotto in italiano: La somiglianza per contrasto.

L’idea di fondo è che l’impronta è un’opera senza tempo, un oggetto inattuale, che permette di far incontrare una «situazione attuale» - l’impronta prodotta da un artista - con qualcosa che è fuori dal tempo. Un esempio perfetto di quello che Didi-Huberman chiama «l’anacronismo»: ciò che lega il passato con il presente; meglio, che ritrova il presente nel passato senza schiacciare l’uno sull’altro, ma rendendoli reciprocamente dialettici.
La sua è la posizione di chi cerca di trovare culturalmente uno spazio tra l’antimodernismo di autori come Jean Clair e il postmodernismo del gruppo di October, la rivista americana d’arte diretta da Rosalind Krauss. Una posizione originale e importante nel paesaggio attuale, che sembra trovare un corrispettivo proprio nell’arte italiana, cui l’autore, non a caso, ha dedicato in passato studi appassionati ed eruditi: star sospesa tra tradizione e innovazione, tra passato e futuro, tra Rinascimento e postmoderno.

La posizione di Didi-Huberman non è affatto scontata, e neppure agevole, come mostra questo inconsueto libro che spazia dall’arte del Quattrocento a Duchamp, cui dedica un considerevole numero di pagine nella parte finale.
L’impronta appare, sin da Donatello, per arrivare a Rodin, artista che rende l’impronta un metodo, la possibilità di mettere in dubbio l’idea umanistica dell’imitazione, ma anche della creazione: l’artista stesso come creatore. L’impronta dà vita a quella che Didi-Huberman definisce «un nuovo cristallo del tempo», che non è né ante né post, bensì anacronistico, appunto.

Il saggio mette bene in mostra il legame che l’impronta intrattiene con la morte - le maschere mortuarie - e con il desiderio - i calchi di parti del corpo umano -, ma anche con l’impresa artistica stessa, che è poi il vero oggetto di questo studio.
Duchamp ha forse liquidato per sempre l’idea dell’opera d’arte come abilità, come «saper fare»? Usando il calco e l’impronta, l’autore mostra l’originalità assoluta dell’artista francese, il suo modo di porsi all’interno dell’arte contemporanea inaugurando una forma di «sottrazione» che ha nell’impronta il suo culmine.

Duchamp rappresenta a suo dire lo scandalo «del valore non commerciale dell’arte». Come ebbe a dire il suo amico, lo scrittore Henri-Pierre Roché, «la sua opera più bella è il modo in cui impiega il tempo».
Cosa c’entra tutto questo con l’impronta? L’impronta è nelle opere di Duchamp - si pensi al suo calco più famoso e misterioso, Foglia di vite-femmina del 1950 - è uno «scarto», ovvero un’operazione dialettica attraverso cui si produce il simile ma nella forma del dissimile da sé. Duchamp mette in scacco l’idea dell’arte come identità e dell’opera come unicità. Si tratta del problema della «riproduzione», lo stesso analizzato da Benjamin.

Con un esempio spiritoso e calzante, Didi-Huberman afferma che anche i bambini si moltiplicano, sono creature fatte in serie, proprio come i celebri ready-made: escono dalla stessa matrice e portano la stessa «impronta», lo stesso cognome. Eppure sono tutti diversi, simili e insieme dissimili. Costituiscono appunto degli «scarti» dalla matrice.
Ecco dunque agitarsi il fantasma dell’erotismo tecnico degli esperimenti duchampiani. L’impronta è in definitiva «uno scarto che s’imprime», che reca la memoria del contatto.
Non a caso i bambini giocano con le impronte, se ne serve la magia, e la religione le tiene in così grande considerazione. Non tutte, ma molte, e sante, sì.