Turki al-Faisal, Il Sole-24 Ore 4/9/2009;, 4 settembre 2009
SUL PETROLIO BISOGNA ESSERE PI RAFFINATI
La frase "indipendenza energetica" è diventata un mantra della scena politica americana, ed evocarla ormai sembra indispensabile come baciare i bambini. Tutti i candidati presidenziali nell’ultima campagna elettorale ne hanno parlato e oggi il sito della Casa bianca elenca fra i principi guida la necessità di «limitare la nostra dipendenza dai combustibili fossili e rendere l’America indipendente sotto il profilo energetico». Possiamo aspettarci una nuova ondata di retorica di questo genere quando ripartirà la ripresa economica, con conseguente rialzo del prezzo del petrolio.
Ma questo motto dell’"indipendenza energetica" è politicismo della peggior specie, un concetto irrealistico, infondato e in definitiva nocivo, sia per i paesi produttori che per i paesi consumatori. E spesso viene adoperato lasciando intendere, in pratica, che gli Stati Uniti sono pericolosamente dipendenti dal mio Paese, l’Arabia Saudita, incolpato di qualsiasi cosa, dal terrorismo globale alla benzina che costa troppo.
L’Arabia Saudita detiene circa il 25 per cento delle riserve di petrolio conosciute in tutto il mondo, è di gran lunga il primo esportatore di petrolio e ha la maggiore capacità produttiva inutilizzata. La produzione petrolifera negli Stati Uniti è cominciata a calare nel 1970, mentre la domanda di energia da allora è aumentata vertiginosamente, e gli Stati Uniti ora sono i maggiori consumatori di petrolio del pianeta. Non esiste nessuna tecnologia all’orizzonte che possa sostituire il petrolio, che possa soddisfare le colossali necessità dell’industria, dei trasporti e delle forze armate statunitensi; qualsiasi scenario futuro, lo si gradisca o meno, sarà caratterizzato da un mix di energie rinnovabili e non rinnovabili.
Alla luce di tutto ciò, tutte le energie profuse per promuovere questa indipendenza energetica dovrebbero invece essere dedicate al riconoscimento dell’interdipendenza energetica. Piaccia o meno, il destino degli Stati Unitie quello dell’Arabia Saudita sono connessi e lo rimarranno ancora per decenni. Questa consapevolezza non dev’essere ragione di timore per i cuori e i portafogli degli americani. L’Arabia Saudita può vantare un lungo curriculum di azioni specifiche che dimostra il suo saldo impegno a garantire al pianeta rifornimenti energetici stabili. Ci siamo coerentemente battuti per mantenere basso il prezzo, più di quanto non abbia fatto qualsiasi altro membro dell’Opec, e abbiamo fortemente incrementato l’offerta in occasione della Rivoluzione Iraniana, durante la prima Guerra del Golfo per compensare la perdita della produzione irachena, e subito dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001: tutto allo scopo di placare il nervosismo dei mercati mondiali. La politica petrolifera saudita è rimasta coerente negli ul-timi trent’anni: lavorare per garantire la stabilità dell’offerta energetica mondiale. Oggi, un barile di petrolio costa generalmente sui 70 dollari. Per contestualizzare questa cifra,va ricordato che perfino durante l’impennata dei prezzi del 1973, il prezzo del petrolio, in dollari del 2008, era di poco superiore ai 100 dollari.
L’impennata del petrolio indubbiamente ha fornito nuovi argomenti a coloro che invocano l’indipendenza energetica per gli Stati Uniti. Ma anche riguardo a questo punto è importante capire che cosa sta succedendo realmente. Dopo l’irrazionale e insostenibile rialzo del prezzo del petrolio degli ultimi anni, l’Arabia Saudita ha intrapreso investimenti per garantire che il mondo non si trovasse di nuovo a fare i conti con un simile tracollo dell’offerta. Dopo aver investito quasi 100 miliardi di dollari per raggiungere una capacità costante di 12,5 milioni di barili al giorno, oggi abbiamo una capacità produttiva inutilizzata di circa 4,5 milioni di barili al giorno (vale a dire oltre il 90 per cento del totale complessivo a livello mondia-le), abbastanza da poter sostituire dall’oggi al domani, se il mondo necessitasse di più petrolio, il secondo e il terzo Paese produttore fra quelli dell’Opec.
Ammettiamo di essere rimasti sorpresi, come gli Stati Uniti e altri paesi, dall’escalation dei prezzi verificatasi negli ultimi anni. Molti danno la colpa alla domanda crescente da parte della Cina e di altri mercati emergenti. Ma il triste dato di fatto è che quattro paesi produttori non hanno tenuto fede alle aspettative di produzione. Nel 1998, l’Iran, l’Iraq, la Nigeria e il Venezuela producevano 12,7 milioni di barili al giorno. Tutti- comprese importanti compagnie petrolifere come la British Petroleum e i nostri analisti della Saudi Aramco - si aspettavano che nel 2008 la produzione complessiva di questi Paesi sarebbe arrivata a 18,4 milioni di barili al giorno. Invece, a causa di disordini interni, mancati investimenti o, nel caso dell’Iraq,dell’invasione Usa,la loro produzione era di appena 10,2 milioni di barili al giorno. Questo è stato uno degli elementi che hanno contribuito a spingere in alto il prezzo. Il resto poi lo hanno fatto gli speculatori, sotto forma di hedge fund.
Un altro fattore che spinge al rialzo il prezzo del petrolio è la mancanza di un adeguato numero di raffinerie. Negli Stati Uniti, per esempio, è da più di 30 anni che non si costruiscono nuove raffinerie. A questo problema c’è da aggiungerne un altro: i diversi parametri sul numero di ottani a seconda della zona. Mi sono imbattuto in una di queste anomalie tre anni fa, quando sono andato a Chicago. A 80 chilometri da Chicago c’è una raffineria, che però non rifornisce la città perché il numero di ottani della benzina raffinata lì non è adeguato ai parametri stabiliti dalle autorità cittadine, e così Chicago deve importare petrolio dalla costa orientale. I prezzi alla pompa sarebbero molto più bassi se la raffineria rifornisse direttamente Chicago.
Sono molte le cause che stanno dietro all’ultima impennata dei prezzi, ma l’Arabia Saudita non è fra queste. A differenza delle grandi compagnie petrolifere, lente a reagire all’assottigliarsi dell’offerta con maggiori investimenti, il regno saudita si è reso conto che questi investimenti- anche se apparivano illogici sul breve termine- sono fondamentali per evitare catastrofici shock energetici. Abbiamo proposto un fondo da un miliardo di dollari per promuovere la ricerca finalizzata a rendere più ecologici i combustibili fossili, e abbiamo promosso il Forum internazionale sull’energia, per mettere allo stesso tavolo paesi produttori e consumatori e le compagnie petrolifere che estraggono, raffinano e vendono petrolio. Anche se i Paesi consumatori non hanno ancora offerto pienamente il loro sostegno, il forum tiene riunioni regolari per discutere gli argomenti rilevanti.
Ma tutto questo gli americani non lo sentiranno dire dai loro leader politici. In uno dei suoi primissimi discorsi da presidente, ad esempio, Barack Obama ha dichiarato che «la dipendenza dell’America dal petrolio è una delle minacce più gravi a cui deve far fronte la nostra nazione», perché «foraggia i dittatori, sovvenziona la proliferazione nucleare, finanzia entrambe le parti della nostra lotta contro il terrorismo», ed ha annunciato quelli che ha definito «i primi passi nel nostro viaggio verso l’indipendenza energetica ».
La demagogia ha una grande presa, ma i politici Usa devono trovare il coraggio per accantonare una volta per tutte la favola dell’indipendenza energetica. Se continueranno a guidare il loro popolo verso il miraggio dell’indipendenza, trascurando l’oasi dell’interdipendenza e della cooperazione, il risultato non potrà che essere catastrofico.
Il principe Turki al-Faisal è presidente del Centro di ricerca e studi islamici re Faisal. stato direttore dei servizi segreti sauditi e ambasciatore in Gran Bretagna (Traduzione di Fabio Galimberti)