Rocco Cotroneo, Corriere della Sera, 04/09/09, 4 settembre 2009
UCCISO IN SALVADOR IL REGISTA CHE RACCONTA L’INFERNO DELLE GANG
Le maras non hanno colpito a caso. Tra le centinaia di fotografi, registi e giornalisti che nell’ultimo decennio sono scesi in America Centrale per raccontare uno dei più inquietanti fenomeni di violenza dei nostri tempi, Christian Poveda aveva un merito. Che nel pomeriggio di mercoledì, in una periferia squallida di San Salvador, si è trasformato in una sentenza di morte. Poveda, francese di 53 anni, era il regista di La vida loca , splendido documentario sulle gang giovanili che tengono in ostaggio tre Paesi della regione – oltre al Salvador, l’Honduras e il Guatemala – con adepti in crescita negli Stati Uniti e persino in Europa. Il suo lavoro, successo internazionale di critica, ha dato fastidio perché si addentra nell’inspiegabile. I ragazzi delle maras – follia allo stato puro, autodistruzione certa – vengono riletti come esseri umani, con sentimenti, idee e persino con ragioni, saltando la facile sociologia della violenza causata unicamente da miseria e degrado. I pandilleros , così si chiamano i membri delle gang, non si nascondono praticamente mai alle telecamere. Al contrario amano apparire e la loro forza trova nuova linfa nella curiosità dei media. Più si tatuano il viso e il corpo, più forte è l’autodenuncia e la loro dichiarazione implicita di fedeltà all’associazione. Poveda è rimasto con loro un anno e mezzo. Troppo tempo, hanno deciso i boss. Non perché abbia svelato colpevoli o volti, ultimo dei problemi, ma perché ha fatto capire qualcosa a chi ha assistito al suo lavoro.
Sarà, quello di Poveda, un altro delitto senza colpevoli e buono solo a gonfiare le statistiche, si dice in queste ore nel piccolo Paese centroamericano, dove la violenza è di casa dagli anni Ottanta, quando era avamposto della Guerra fredda. Il corpo del regista francese è stato trovato a pochi metri dalla sua auto, colpito da quattro proiettili. Non lontano da La Campanera , il quartiere che Poveda conosceva bene. una delle roccaforti della Mara 18, la gang salvadoregna raccontata nel documentario. Una storia di globalizzazione del sangue. Nata nelle periferie di Los Angeles tra i giovanissimi figli degli emigrati in cerca di una vita nuova, la banda proliferò negli anni Novanta attorno alla 18esima strada della metropoli, da cui il nome, dedicandosi inizialmente a traffico di droga, furti e scippi per poi spaziare sull’intero codice penale. Quando la polizia Usa rispedì nel Salvador migliaia di immigrati clandestini, le gang si ricostituirono con maggior forza in patria. Oggi la Mara 18 e la Mara Salvatrucha ( acerrimi rivali) dominano quasi incontrollate, maneggiano grandi quantità di denaro e infiltrano le forze dell’ordine. Nei soli tre Paesi centroamericani si stima che contino su almeno 80.000 aderenti.
Prima di avventurarsi nell’inferno, Poveda si era preparato a dovere. Aveva visto l’Intifada, la guerra Iran-Iraq e i conflitti in Libano. Nel Salvador aveva infine scelto di vivere e lavorare, prima con la sola macchina fotografica poi con la telecamera.
La vida loca è violenza e speranza. Riprende omicidi e funerali, lacrime e orrende operazioni di tatuaggio integrale del corpo di ragazzi e ragazze. Quasi tutti i protagonisti muoiono durante le riprese, o poco dopo. Presentato per la prima volta al festival di San Sebastian dello scorso anno, il film ha fatto il giro del mondo nelle rassegne specializzate. «Non è poi così perduta questa battaglia – aveva detto Poveda in una recente intervista ”. Un pazzo tutto tatuato che ha già ammazzato venti persone magari non riesci più a recuperarlo, ma un ragazzino di 12 anni che sogna di entrare nelle gang forse sì. C’è bisogno di lavoro, soldi e personale specializzato, tutte cose che in questi Paesi non esistono ». Ampio spazio, nel film, è dedicato a un progetto di reinserimento sociale di ex giovanissimi criminali. Da qualche anno i Paesi della regione, più Messico e Stati Uniti, tentano di lavorare a una strategia comune per fermare il fenomeno delle maras , ma i risultati sono stati finora insignificanti. Appare ormai chiaro, lo racconta anche Poveda, che la repressione serve a poco quando si tratta di affrontare l’autodistruzione. Le Ong che se ne occupano invitano i governi a concentrare gli sforzi su programmi alternativi per i giovani e a riforme radicali per ridurre la corruzione nelle forze dell’ordine.