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 2009  settembre 04 Venerdì calendario

BERLIN, LA DITTATURA DEI DIRITTI


Ciò che distin­gue il liberali­smo dalle altre dottrine politi­che è la metodologia del­la conoscenza. Quella li­berale è empirica; quella delle altre dottrine è filosofica. La metodo­logia empirica si pone la domanda «co­me » stanno le cose. Quella filosofica, la do­manda sul «perché» delle cose. La risposta alla domanda sul «come» è verificabile nel­la realtà; è un giudizio di fatto. La risposta alla domanda sul «perché» non è verifica­bile nella realtà; è un giudizio di valore. Un esempio della prima è la frase di Adam Smith che non è dalla benevolenza del for­naio, del macellaio e del birraio che traia­mo il nostro desinare, ma dal loro torna­conto. Dice «come» sono gli uomini. Per verificare che è vera è sufficiente constata­re che nessuno dei tre regala la propria pro­duzione. Il mercato è quella forma di giu­stizia «commutativa» attraverso la quale ci si scambiano beni con vantaggio dei con­traenti. Chiedere al mercato di realizzare la giustizia «retributiva» – ubbidire a un principio etico: la giustizia sociale, l’egua­glianza e simili – e imporgli di farlo è un nonsenso logico e una violenza politica. un nonsenso logico, perché la sua vera fun­zione non è quella di produrre valori; è vio­lenza politica, perché mortifica una delle libertà liberali, quella economica.

Il teorico della metodologia filosofica della conoscenza attribuisce, invece, il comportamento del fornaio, del macellaio e del birraio al loro «egoismo» e auspica un mondo eticamente fondato sull’«altrui­smo » universale. un «salto» logico in­spiegabile se non con l’imposizione, in se­de politica, di comportamenti morali estranei al contesto economico nel quale si manifestano. La descrizione (l’egoismo, come categoria della realtà) diventa pre­scrizione (l’altruismo, come categoria nor­mativa). Il liberalismo ha storicamente in­crociato lo Scientismo come «metodo» delle Scienze naturali applicato alle Scien­ze sociali. Ma se ne è discostato quando l’Illuminismo ha coniugato lo Scientismo – che espone a verifica empirica le pro­prie affermazioni – col Razionalismo, con la pretesa della pura Ragione che i comportamenti umani ubbidiscano alle stesse leggi delle Scienze naturali, siano la conseguenza logica del «nesso causale» cui ubbidiscono la fisica e la meccanica e, perciò, ugualmente prevedibili e sempre governabili.

Il liberalismo ha compreso che sono le passioni che muovono la Ragione, non vi­ceversa; che i valori non si fondano né sul­la Ragione, né sulla Scienza, ma sono scel­te della coscienza individuale; che non può esserci una (sola) base razionale a tut­te le convinzioni etiche e persino politiche né, tanto meno, una «razionalità colletti­va ». Perciò, esso non indulge a astrazioni ideologiche collettive come «popolo», «classe», «razza» e simili, che sono la giu­stificazione della negazione delle libertà individuali in nome dell’affermazione di astrazioni «etiche», collettive, quali «l’uti­lità sociale», «il progresso civile» e simili.

Isaiah Berlin – nella sua ricerca delle radici del totalitarismo – denuncia le im­plicazioni politiche illiberali della libertà positiva che sacrifichi la realizzazione di sé associata alle passioni (la «falsa» identi­tà) a quella definita dalla Ragione (l’«au­tentica » identità). Ma la libertà consiste nel fare ciò che si vuole, cioè anche nella possibilità di sbagliare, quale che sia l’in­terpretazione, autentica o falsa, della rea­lizzazione di sé che se ne dia. C’è il rischio, inoltre, che qualcuno pretenda di sapere quale è la realizzazione «autentica» di sé e la imponga coercitivamente. lo Stato eti­co, totalitario, ma anche la logica che, nel­le democrazie contemporanee, giustifica la confisca – in nome dell’idea «autenti­ca » di socialità – di risorse che i cittadini utilizzerebbero meglio, per sé e nella pro­duzione privata di beni e servizi collettivi oggi prodotti dallo Stato con grande spre­co. La superiorità della libertà negativa, li­berale, è che la libertà «da» è «la» libertà, indipendentemente da quale possa essere l’idea che ne hanno gli altri.

Un’altra implicazione, politicamente e socialmente negativa della libertà positiva – che Berlin non aveva previsto, ma che è sotto i nostri occhi – è la trasformazione, da parte della politica, di desideri persona­li in diritti universali. Le controindicazio­ni, qui, sono tre. La prima è l’impropria identificazione dei desideri con diritti, che provoca una anomala «inflazione» di questi ultimi. La seconda è la «bulimia de­mocraticista » di chi rivendica un numero sempre maggiore di diritti, sovraccarican­do la politica di domande e di aspettative, e riducendosi alla condizione di mendici­tà psicologica e di dipendenza politica dal potere cui si chiede di soddisfarli. La terza controindicazione – anche questa non te­orizzata da Berlin, ma che sta diventando, per via fiscale, la «malattia terminale» del­le democrazie – è che a ogni diritto di qualcuno corrisponde un dovere di qual­cun altro. La fiscalità – come redistribu­zione della ricchezza, non come contropar­tita di beni e servizi che lo Stato fornisce – è una forma di violenza, di matrice mo­ralistica e collettivistica, dello Stato nei confronti dell’Individuo.

Il «pluralismo di valori» – la compre­senza, in una «società aperta», di una plu­ralità di risposte, moralmente incommen­surabili, fra loro conflittuali e politicamen­te non negoziabili, alle questioni etiche e politiche – assolve, infine, nel pensiero di Berlin, a due funzioni. La prima è de­scrittiva della realtà «effettuale»; che è sempre perfettibile, mai passibile di ap­prodare alla perfezione. La seconda è esemplificativa del carattere realista, plura­lista, umanista, gradualista, concretamen­te riformista del liberalismo. La convinzio­ne che la perfezione morale e politica sia realizzabile produce due conseguenze. A) nega validità al riformismo, cadendo, filo­soficamente, nell’utopia e, politicamente, nel massimalismo; che finiscono col tra­sformarsi in conservatorismo, se non in re­azione, in nome, e nell’attesa, di un obietti­vo, via via sempre più remoto, grandioso e mai empiricamente raggiungibile. la pa­rabola del bicchiere mezzo pieno – il rico­noscimento (riformista, gradualista) che la globalizzazione ha sottratto dalla condi­zione di povertà milioni di cinesi, indiani, sudafricani, sudamericani – e del bicchie­re mezzo vuoto, la condanna (massimali­sta, reazionaria) della globalizzazione per­ché non ha tolto dalla povertà altri milioni di uomini. B) apre la strada al totalitari­smo, nella convinzione che qualsiasi mez­zo sia giustificabile per raggiungerla.