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 2009  settembre 03 Giovedì calendario

RAPSODIE PORTOGHESI


La tendenza generale al disimpegno è bilanciata dal recente tentativo di narrare le vicende che hanno coinvolto decine di migliaia di retornados, costretti ad abbandonare i loro luoghi e i loro affetti in seguito all’indipendenza delle colonie africane, avviata nel ’74
Considerato il senso moderno dell’aggettivo «nazionale» applicato alla letteratura - che ci rimanda all’esprit de la littérature illuminista - sarebbe interessante chiedere a un lettore medio italiano quale sia la sua percezione della cultura portoghese e quanto c’entri, in questa percezione, la letteratura. Avremmo quasi certamente risposte vaghe, scopriremmo lacune talvolta abissali e vedremmo consolidarsi stereotipi secolari. L’Italia è uno dei paesi dove si pubblica di più e dove si legge di meno. Di fatto, anche per via della congenita esterofilia del nostro mercato editoriale (gli inguaribili ottimisti si ostinano a definirla «vivacità intellettuale»), la letteratura portoghese nel nostro paese è degnamente rappresentata, sebbene confinata nelle solite nicchie - escluse le eccezioni rappresentate da Pessoa, José Saramago e António Lobo Antunes - e per di più ancorata a traduzioni obsolete; certo è che viene spesso ignorata dai recensori ed è posizionata ai margini del canone. Lo testimonia il numero esiguo di opere della letteratura portoghese incluse nelle collane dei grandi classici e l’approssimazione con cui si ricordano autentici «grandi» della Weltlitteratur come Gil Vicente, Camões, Eça de Queirós. Singolare il caso di quest’ultimo, esiliato in polverose traduzioni risalenti alla prima metà del ’900, salvo qualche felice ma saltuaria riedizione (il Mandarino per Einaudi, Il conte di Abranhos per Avagliano, i Racconti per Bur). La letteratura portoghese sembra dunque un tesoro prezioso e nascosto riservato agli intenditori, ai curiosi, agli esploratori.

Un riferimento intramontabile

In questo quadro, a metà degli anni ’80 l’autorevole lista del critic’s choice del «New York Times» manteneva fra le sue preferenze il romanzo di José Saramago Memoriale del Convento, menzionandolo oltre ogni consuetudine temporale, fatto che ha contribuito al successo dello scrittore e allo sdoganamento di una letteratura fino ad allora considerata semi-periferica (concetto ancora frequentato nella dimensione sociale della letteratura oltre che nelle aggiornate classifiche di Harold Bloom). Proprio in quegli anni si andava solidificando il progressivo riavvicinamento del Portogallo all’Europa, movimento inverso a quell’allegorica deriva atlantica che la penisola Iberia avrebbe intrapreso in un altro noto romanzo di Saramago, La zattera di pietra.

In seconda battuta, verso la fine degli anni ’90 si è parlato di Lisbona come centro di cultura proprio grazie alla popolarità imagologica prodotta dalla letteratura e dalle altre arti (Tabucchi esegeta di Pessoa e narratore della città con Requiem e Sostiene Pereira, il Pereira stesso interpretato da Mastroianni, la musica dei Madredeus, Lisbon Story di Wim Wenders, Lisbona capitale europea della cultura, l’Expo e infine la ciliegina sulla torta: il Nobel a Saramago). L’effetto, però, si è afflosciato come un palloncino bucato. Nell’editoria italiana né Pessoa né Saramago hanno mai funzionato da rimorchio per autori come Mário de Sá Carneiro, Camilo Pessanha, Antero de Quental, Cesário Verde, Aquilino Ribeiro, Jorge de Sena, Miguel Torga, Lídia Jorge, João de Melo. Anche l’onda di quella effimera rinascenza si è stancamente arenata su una spiaggia. La cultura lusitana di oggi sembra trovare una allegoria calzante nel viaggio statico dell’eteronimo pessoano Álvaro de Campos: una vertigine suggerita dalle partenze di navi contemplate dall’immobilità di un molo.

E il mondo delle lettere ne costituisce un riflesso fedele, fra cosmopolitismo e provincia, fra voci di genio e una sorta di rassegnata bonaccia venata da noiose querelles, come quella suscitata pochi anni orsono quando il poeta laureato Manuel Alegre venne escluso da una antologia titolata O Século de ouro, neanche tanto scapigliata: un «piccolo dolore alla portoghese / così mansueto, quasi vegetale», avrebbe detto con il consueto sarcasmo il poeta Alexandre O’Neill, incluso nel secolo d’oro, ma pressoché dimenticato - imperdonabile lacuna - dalla nostra editoria.

In Italia, un tentativo di antologizzazione della letteratura portoghese, possibile viatico all’esplorazione di una cultura letteraria, è stato realizzato negli ultimi anni con l’edizione dell’Antologia del racconto portoghese (Cavallo di Ferro), curata da João de Melo, dove viene presentato un ventaglio narrativo che parte dai romantici Alexandre Herculano e Camilo Castelo Branco e arriva al giorno d’oggi con José Luís Peixoto (ma con l’inspiegabile oblio di un narratore «giovane» quale Jacinto Lucas Pires che proprio nella dimensione del racconto ha offerto le prove migliori); un altro tentativo lo ha compiuto l’editrice La nuova frontiera con la raccolta di racconti Lusofônica, che però considerava anche la letteratura brasiliana e quelle africane di espressione portoghese nel segno della grande comunità linguistica della lusofonia. Alcuni editori, poi, hanno eletto la letteratura portoghese a elemento connotativo dei loro cataloghi, e tra questi la leccese Besa che, fra l’altro, propone uno scrittore «classico» del postmoderno lusitano come Almeida Faria, sebbene traducendone le prove forse meno convincenti (Il conquistatore, 2004 e Le passeggiate del sognatore solitario, 2005).

Un breve percorso attraverso la narrativa portoghese contemporanea, per quanto non esaustivo, deve attingere a un repertorio eterogeneo, non inquadrato in scuole e movimenti ma unito nel rapporto con i modelli e con la generazione precedente. Da tempo il termine di confronto è sempre e soltanto Saramago, mentre meno presente fra i punti di riferimento è José Cardoso Pires, come se la sua lezione di lucido e coraggioso indagatore dei falsi miti, delle strutture più recondite e dei complessi meccanismi che storicamente hanno legato il potere e la società del Portogallo rivestisse un minore interesse. Forse perché lo sguardo dello scrittore ha un po’ rinunciato allo scavo sociale e politico del suo paese; come se una volta archiviato (quando non rimosso) il recente passato e una volta decretato il transito definitivo nel tessuto globalizzato del nuovo millennio, anche le tensioni che spiegherebbero al lettore una società in mutazione fossero state accantonate nel nome della ricerca, non sempre riuscita, di una scrittura in cui prevalga il lato estetico e espressivo. Quanto agli autori che, a tutti gli effetti, dovrebbero rappresentare i «vecchi maestri» - Vergílio Ferreira, José Rodrigues Migueis, Aquilino Ribeiro, Jorge de Sena, Miguel Torga - sembra che la loro traccia si sia inspiegabilmente persa nel tempo.

Curiosa, poi, la canonizzazione in vita di uno scrittore come Lobo Antunes, testimoniata filologicamente dalla scelta da parte della lisbonense Dom Quixote di pubblicare l’edizione ne varietur della sua ormai vasta opera, e confermata anche dalla recente pubblicazione di Lettere dalla guerra (Feltrinelli), un epistolario più vicino alla diaristica d’autore che all’autofiction e all’intersezione fra testo narrativo e autobiografia. Le missive di Lobo Antunes risultano prive di quel corredo testuale caratteristico del journal intime, poiché - è evidente - non vi è nulla o quasi di autenticamente letterario, perlomeno nelle intenzioni. Più interessante è forse una riflessione sul contenuto sociale (lo sfondo della guerra coloniale) e politico (la fine del Salazarismo).

La lettura di questo epistolario risulta ancora più significativa se si considera un contesto come quello rappresentato dalla cultura portoghese che, salvo rari casi, ha archiviato senza una vera analisi previa periodi così oscuri della sua storia, relegandoli nella dimensione del tabù e dell’oblio.

Una parziale inversione di tendenza è rappresentata dal recente tentativo di narrare le vicende che hanno coinvolto decine di migliaia di cittadini portoghesi, i cosiddetti retornados, costretti ad abbandonare i loro luoghi, le loro esistenze e spesso anche il loro affetti a seguito dell’indipendenza delle allora colonie africane, inserendosi a grande fatica nel tessuto sociale portoghese dopo il 25 aprile del 1974. Le storie di portoghesi in Africa sono il tema attorno al quale si sviluppano le prove interessanti di Francisco Camacho con Niassa e di Francisco José Viegas con Lourenço Marques, entrambe connotate fin dal titolo da una topografia localizzata in ambito coloniale (Lourenço Marques è il nome portoghese della capitale mozambicana, oggi chiamata Maputo).

Qualche menzione speciale

Un paio di anni fa sono stati finalmente tradotti anche in Italia, dalle edizioni Cavallo di Ferro due bei romanzi: quello di João de Melo Autopsia di un mare di rovine, e Equatore, il feulleton del giornalista Miguel Sousa Tavares, presto diventato un caso editoriale, in cui il recente passato coloniale viene riletto alla luce di vicende personali narrate secondo i modelli canonici del romanzo sentimentale.

Quel che apparirrà chiaro, sfogliando uno schedario inevitabilmente arbitrario di autori e di opere in qualche modo rappresentativi, è che va subito archiviata l’ipotesi di un comune deposito di temi, mentre si potrà facilmente rintracciare una tendenza al disimpegno, allo scollamento dal contesto portoghese, bilanciato dall’incursione nel passato più remoto, non necessariamente circoscritto ai confini lusitani. Proprio questo si trova nella narrativa di Gonçalo M. Tavares, portoghese nato in Angola nel 1970, epistemologo, autore assai prolifico il quale, nel volgere di pochissimi anni - dopo avere debuttato nel 2001 con le poesie di Livro da dança per la prestigiosa Assírio & Alvim - ha vinto alcuni fra i premi letterari più importanti assegnati in Portogallo inducendo una critica frettolosa a scomodare addirittura l’eteronimia di Pessoa. Oltre al romanzo più noto, Jerusalém (2004) e alla fortunata serie assai apprezzata dall’Oulipo parigino dedicata a quei «signori scrittori» che animano i caffè di un quartiere reinventato nel centro di Lisbona e che si chiamano signor Valéry, signor Brecht, signor Walser, signor Henri (nel senso di Michaux) o signor Calvino, sono da poco uscite le sue originali prose rapsodiche Acqua, cane, cavallo, testa (Il Filo), collezione di lacerti costruiti intorno a personaggi-monadi colti in ossessive deambulazioni dal risvolto mortifero. CONTINUA|PAGINA12 Sullo stesso stile e con una spiccata propensione al racconto breve di ispirazione americana, sebbene pervasa di elementi surreali, si muove Jacinto Lucas Pires, purtroppo non ancora tradotto in Italia, anch’egli giovanissimo al suo debutto e trasmigrato di recente verso la sperimentazione cinematografica e la frequentazione di altri media.

Il paradigma sul quale possiamo riflettere l’analisi di una intera generazione è senz’altro rappresentato da José Luis Peixoto, anch’egli tradotto in Italia (ricordo in particolare Questa terra ora crudele, La nuova frontiera, struggente requiem in memoria del padre): la sua opera forse più ambiziosa, Cemitério de pianos, nel complesso è un buon romanzo, sebbene prolisso e inciso da incastri spesso superflui ma, ancora una volta, è troppo costruito intorno alla lezione di Lobo Antunes. Un discorso analogo si potrebbe fare per Dulce Maria Cardoso (Le mie condoglianze e Campo di sangue, per Voland), autrice proveniente dalla sceneggiatura cinematografica. Dalla scia di Antunes si discosta invece Mário de Carvalho, il quale appartiene però alla generazione degli esiliati parigini rientrati in patria dopo la rivoluzione del 25 di aprile; tra i suoi libri sono notevoli Passeggia un dio nella brezza della sera e I sottotenenti (entrambi usciti in Italia da Instar).

Una menzione, infine, va accordata alle promesse non mantenute: in particolare a Possidônio Cachapa, in caduta libera dopo un debutto assai originale (A materna doçura) e Pedro Rosa Mendes, eclissatosi dopo un mirabile esempio di romanzo-testimonianza (Baía dos Tigres, Einaudi), scritto a seguito di un lungo viaggio fra le rovine di un’Angola e di un Mozambico apocalittici e violenti, disseminati di mine e corrosi da conflitti irrisolti.