Andrea De Adamich, il Giornale 3/9/2009, 3 settembre 2009
IO CHE HO GUIDATO PER LUI
Ereditai il volante di Bandini Ho trovato tanta pressione ma anche una famiglia
Pensare a un italiano sulla Ferrari mi riporta in mente la mia avventura sulla Rossa nel 1967 e 1968. Era morto Lorenzo Bandini a Montecarlo, in modo drammatico. Enzo Ferrari, coinvolto con grande emozione anche per l’amicizia e il rispetto che lo legava a Bandini e a sua moglie Margherita, sembrava non voler più sentir parlare di un pilota italiano nella sua squadra di Formula 1.
In quel periodo, presuntuosamente, ero io il più promettente pilota italiano, contrastato solamente da Ignazio Giunti molto sostenuto dal mondo motoristico romano. Una gara prototipi a Vallelunga, il Trofeo Bettoia, patria incontrastata di Giunti, con entrambi al volante di un’Alfa Romeo 33 Autodelta, mi permise di dare una cosiddetta zampata sul campo, con una gara dominata fin dalle prove. Fu il lasciapassare per un incontro informale con Enzo Ferrari che mi illustrò un programma di prove che mi avrebbe coinvolto nelle settimane a seguire. Mi chiese se ero d’accordo e disponibile. Potete immaginare la mia risposta. Prove ottime a Modena, velocissime a Monza, ancora meglio a Vallelunga. E poi partenza prima per un gp di Spagna nella nuova pista di Jarama, ma non valido per il Mondiale. Quindi l’emozione della partenza per il Sudafrica, prima vera prova del Mondiale del Campioanto 1968, con compagni di squadra Jacki Ickx e Chris Amon.
Quello che ho provato io, pur nella freddezza professionale di un pilota, ha avuto risvolti in un incredibile rapporto umano con Enzo Ferrari stesso, l’ingegner Forghieri, Franco Gozzi, i meccanici. Particolari che ne 2009 mi sembra non esistano più. Al massimo richiedono anni e anni prima di vederne i frutti, come successo con Schumacher. In un certo senso, nei miei anni chi entrava in casa Ferrari, più che in una squadra, viveva sentimenti mescolati ad emozioni. La pressione era più limitata all’interno della squadra stessa, o al massimo in pista, in autodromo. Oggi il circus della F1 mi sembra molto più condizionato dai media e dalla comunicazione: si vive più per gli articoli, per le interviste, per i comunicati. Allora il pilota era partecipe diretto di tutto ciò che avveniva, senza facciate, addetti stampa, manager, avvocati a proteggerne la figura. Credo che questo aspetto sia un pò la chiave di volta dei tempi cambiati: il pilota che salirà sulla Ferrari a Monza penserà all’abitacolo, ai tempi, al risultato… a quanto varrà il suo ingaggio.
1968: la vera emozione era parlare con Enzo Ferrari, con Forghieri, con i meccanici e sedersi nell’abitacolo della Ferrari. Tutto il resto arrivava dopo.