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 2009  settembre 03 Giovedì calendario

CON BAARIA, TORNATORE COMMUOVE IL LIDO


Corri Pietro, cor­ri! E Pietro mette in spalla le sue gambette di bimbo e va a perdifiato, attraversa il suo pae­se e attraversa il tempo, così ve­loce che si ritrova a volare, a guardare dall’alto quei luoghi tanto familiari quanto ormai lontani. Quando tornerà a terra, dopo il più fantastico dei viag­gi, la sua strada s’incrocerà con quella di un altro bambino, Pep­pino, secco e veloce come lui, forse un po’ strano per via di quei panni da miseria antica, co­me venisse da chissà dove. Dal passato, visto che Peppino è il padre di Pietro. Inizia così e co­sì si chiude Baarìa, affresco sto­rico, morale, civile di un villag­gio siciliano e di una famiglia dagli anni del fascismo a oggi. Un personalissimo album di ri­cordi ed emozioni che Giusep­pe Tornatore sognava da sem­pre di sfogliare sullo schermo.

«Ma pensavo di farlo più avanti. Forse a 60 anni...» rivela il regista premio Oscar per Nuo­vo Cinema Paradiso. Invece il destino e la passione dei produt­tori, Giampaolo Letta e Mario Cotone, hanno deciso altrimen­ti. Così il suo viaggio di ritorno a Baarìa, dove nacque 53 anni fa, Tornatore lo ha portato a ter­mine ieri, presentando al Lido – tiepidi gli applausi della stampa al mattino, più commos­si quelli ricevuti in serata dal pubblico – il suo film più priva­to e politico: Baarìa . A scortarlo sulla passerella 35 dei suoi 200 e più attori. E l’arrivo in sala di Peppuccio, introdotto dalla madrina della serata Maria Grazia Cucinotta, è stato salutato dalla platea con una standing ovation.

Un’apertura di Mostra festo­sa, incrinata solo dagli inciden­ti avvenuti davanti all’Hotel Des Bains, dove un gruppo di Glo­bal Beach, i precari dello spetta­colo, si erano riuniti per prote­stare. Caricati dalla polizia a col­pi di manganello, tre di loro, tra cui un disabile, sono rimasti contusi. Intanto in Sala Grande scorre­vano le immagini di Baarìa.

Centocinquanta minuti in sici­liano stretto (che in breve capi­sci benissimo anche se sei celti­co) dove si piange e si ride con Cicco il pecoraio, suo figlio Pep­pino il sindacalista e il nipote Pietro, ai cui piedi veloci è affi­dato un futuro quanto mai in­certo. Un microcosmo popolare e picaresco dove la gente man­gia pane e cipolla, si martella i piedi per non andare in guerra, sbeffeggia i federali, ascolta i poemi cavallereschi declamati dal pastore nella stalla.

«Una passeggiata per Baarìa vale più che girare il mondo – assicura Tornatore – E’ la forza di tutti i paesi. In uno spazio pic­colo è più chiaro il rapporto tra bene e male, essere e apparire, sogni e delusioni». Come quelli che si agitano nella piazza del luogo tra bandiere rosse e cami­cie nere. «Militare nel Pci non erano rose e fiori ma le sezioni sono state grandi palestre di de­mocrazia, ti insegnavano a di­scutere, a confrontarti con gli al­tri », assicura Tornatore. «Ave­vo 10 anni quando mi iscrissi alla sezione di Bagheria. Ero il tesserato più giovane. In quello stesso periodo, con i sol­di raggranellati lavorando co­me proiezionista, comperai le prime attrezzature e girai i miei primi film». E spezzoni di quel­le pellicole infantili, sfocate, tra­ballanti, appaiono sui titoli di coda, mescolati con brusii di vo­ci. «Frammenti di mie registra­zioni, le voci del poeta Buttitta, di Guttuso, Maraini... E anche di mio padre».

Un padre comunista ovvia­mente, che trasmise la passione al figlio insieme con i rudimen­ti di vita. «Ho fatto tempo a cre­scere in una famiglia dove si in­segnava non solo come impu­gnare una forchetta ma come rapportarci con il mondo. Instil­lare la passione civile è una del­le cose perse in questi ultimi 60 anni. Come spiegare ai nostri fi­gli che la libertà è bellissima ma solo se si rispetta quella altrui». Quanto all’essere comunista oggi, Peppuccio, come il Peppi­no del film, ci crede ancora. «Ho letto che Berlusconi ha lo­dato Baarìa . Mi fa piacere. Co­me premier produttore però è stato un po’ intempestivo. Un produttore vero avrebbe aspet­tato prima di esprimersi. Come critico di cinema invece ha rac­contato la parte della storia che piaceva a lui. Di un comunista che, dopo un viaggio in Urss, si pente. Detta così, una grandissi­ma bugia. Il film parla di una vi­ta intera vissuta, pur con soffe­renza, al servizio di un ideale».

Merce oggi rara. «Tenere la barra di un ideale è la chiave se­greta del film – conclude ”. Un tempo forse ne avevamo troppi, oggi nessuno. Bisogna trovare una nuova sintesi tra questi due estremi. La logica del tutto e subito si è rivelata fal­limentare, l’unica strada che re­sta è un riformismo ragionevo­le. Anche se, visto come va la po­litica, può sembrare folle».