Davide Brullo, Libero, 3/9/2009, 3 settembre 2009
OSAMU DAZAI IL MALEDETTO CHE SI CREDEVA IL MIGLIORE
Prima di Yukio Mishima ci fu Osamu Dazai. Yukio, idolatrato dai balilla della destra (ma affascinò anche Alberto Moravia), amava i colpi di teatro: si uccise nel 1970 con un colpo di sciabola, davanti alle televisioni, dopo avere occupato il ministero della Difesa. Osamu Dazai si fece fuori nel 1948, inalando bisce di gas, fuori dal mondo: il suo corpo fu ritrovato sei giorni dopo il decesso, nel giorno del suo compleanno, quando Dazai avrebbe compiuto 39 anni. Fatti i giusti calcoli, Osamu Dazai quest’anno avrebbe 100 anni. Evidentemente, uno scrittore giapponese che si rispetti deve togliersi la vita: Yasunari Kawabata (Premio Nobel nel 1968) si suicida a 72 anni; il suo maestro, Ryunosuke Akutagawa (da un suo racconto Akira Kurosawa estrae il film ”Rashomon”), la fa finita a 33 anni, nel 1927, ingozzandosi di Veronal.
Ma torniamo a bomba. Tra Mishima e Dazai c’è un abisso: il primo è Dioniso e il secondo Apollo; l’uno un samurai travestito da San Sebastiano, l’altro un dandy sull’orlo della depressione. Eppure, il suicidio di Dazai segna un’epoca intera. La sua morte fa scompiglio, per onorarlo uno dei suoi discepoli, Tanaka Hidemitsu, si uccide sulla tomba del maestro, nel 1949.
Ma perché i giapponesi devono imitare il romanzo occidentale? Chi lo sa, in casa hanno uno dei romanzi più belli della storia della letteratura, il Genji monogatari, che è stato scritto intorno all’anno 1000, sta al fianco di Cervantes e profetizza Marcel Proust, che bisogno hanno di cercare altrove? Si sa, l’erba del vicino è sempre più croccante, così se leggete Mishima (la tetralogia Il mare della fertilità) fa l’effetto di un Flaubert che scriva un romanzo in costume d’Oriente. Con Dazai la solfa cambia poco, si tratta di un fanatico di Dostoevskij che però ha le pose di un decadente (in una sua foto ha il kimono, la sigaretta penzolante, la posa e lo sguardo annoiato, come un Jacques Brel), eppure, il suo romanzo più bello, Il sole si spegne, datato 1947 (caramellina: è tradotto da Luciano Bianciardi, ma dalla versione americana, è ritornato in catalogo Feltrinelli quest’anno, insieme a Lo squalificato), è bello davvero.
Parentesi biografica: «Me ne andai di casa, ridotto in povertà, vagando per le strade, mendicavo in ogni quartiere della città, tentando di sopravvivere, giorno dopo giorno, privo di tutto, solo con la mia scrittura». Figlio di ricconi aristocratici, Dazai fa marcia indietro, preferisce le astuzie del pezzente, si allea a clan comunisti, ma non resiste tra le grinfie del partito (Maria Teresa Orsi parla di una «esperienza amarissima e deludente, da cui Dazai si sarebbe presto allontanato, addirittura giungendo alla delazione e al tradimento dei compagni di lotta»).
Negli anni Trenta fa una vita da ”maledetto”, a base di sesso, droga e scrittura, di ripetuti tentativi di suicidio, di abuso d’alcol e assuefazione ai narcotici. Poche storie, m’importa la pasta della scrittura. Mettiamola così: Kawabata ci dona un’idea educata e sentimentale del Giappone, Dazai si muove con la katana, tutto è pasta psichica eccessiva, protagonismo matto (si definisce, con autocelebrativo climax, «un dissipato, un gaudente, un infingardo, un vizioso, un egoista»), perfino profetico («La guerra. La guerra del Giappone è un atto di disperazione. Morire risucchiato da un atto di disperazione... no, grazie. Preferisco morire di mia mano»). Romanzo cruento e soffocante, Il sole si spegne, in cui si discetta di Turgenev («Era un aristocratico. Ecco perché lo detesto») e Goethe, di Marx, di Rosa Luxemburg e di Gesù (con ululati furenti, ipermoderni: «C’è qualcosa per cui debbo assolutamente combattere. Una nuova morale. Ma no: anche il ricorso a questa parola è ipocrisia. Amore. Quello e nient’altro»).
La pagina esteticamente mirabile è all’inizio, quando una bambina, inaspettatamente, brucia un nugolo di uova di serpente, da cui scoppiano incubi, allucinazioni: «Sulla rosa di Sharon, sull’acero, sulla ginestra, sul glicine - su ogni arbusto e su ogni albero - c’era un serpente. Ma il fenomeno non mi spaventò in modo particolare. Solo sentivo che in qualche modo le serpi, come me, piangevano la morte di mio padre ed erano strisciate fuori dalle loro buche per rendere omaggio al suo spirito».
Le pagine filosoficamente più roboanti, invece, sono verso la fine, quando Dazai ragiona sul tema «gli uomini sono tutti uguali»: «Mi chiedo se questa possa essere una filosofia. La persona che per prima elaborò questo concetto straordinario non credo fosse un uomo di religione, o un filosofo, o un artista. Presumibilmente quel concetto è uscito da qualche locale pubblico, da un bar, come un luogo comune, senza che nessuno lo abbia formulato: un concetto destinato a capovolgere il mondo intero e a renderlo repellente». Non va meglio col concetto analogo, «tutti gli uomini sono simili», che «è un’asserzione orribile, oscena». La morale del giapponese, che va bene pure oggi, è spiattellata: «Credo che tutta la cosiddetta ”ansia del nostro tempo” - l’uomo che ha paura dell’uomo, tutti i principi calpestati, la buona volontà derisa, la felicità negata, la bellezza corrotta, l’onore umiliato - abbia origine da questa espressione incredibile».