Stefano Sansonetti, ItaliaOggi, 26/08/09, 26 agosto 2009
Ecco
L’ hanno chiamata Double Asset Protection e giurano che si tratta della nuova frontiera dell’esportazione dei capitali all’estero. Un sistema talmente a prova di bomba che nessun Giulio Tremonti o Barack Obama sarà in grado di scalfirlo, nemmeno con l’ultima guerra santa contro i paradisi fiscali. Addirittura l’espressione è diventata un marchio registrato che sta scatenando la fantasia dei consulenti fiscali di mezzo mondo. Lo schema, tecnicamente un po’ ostico, riassumendo è il seguente. Chi ha fondi da esportare, e naturalmente vuole mantenere il bottino quanto più possibile inalterato, deve innanzitutto partire affidandosi a gestori di stanza in Liechtenstein. Questi, per conto del loro facoltoso cliente, costituiscono una fondazione a Panama, paese che, nonostante la tempesta, continua a garantire privacy e anonimato pressoché assoluti. Tramite la fondazione, poi, viene aperto il principale conto corrente bancario in quel del Liechtenstein, sul quale soltanto i gestori hanno la firma. Se si vogliono usare o aggiungere fondi, prevede infine lo schema, si va a registrare un’entità giuridica offshore con conto corrente a Panama verso la quale i gestori del Liechtenstein faranno via via trasferimenti di capitali. E da lì il facoltoso cliente attingerà per i suoi bisogni. Lo schema è stato lanciato nei giorni scorsi da www.doubleassetprotection.com, un sito che fa capo ad alcuni specialisti di gestioni patrimoniali offshore. Ma la messa a punto del meccanismo, secondo quanto si apprende dal sito, va ricondotta alla Panama Offshore Incorporation, definita come leader mondiale nello studio di soluzioni patrimoniali per il tramite di società e fondazioni panamensi. Il pezzo forte di tutta l’impalcatura, in sostanza, è proprio Panama. Lo stato, precisano i consulenti, ha innanzitutto il canale, infrastruttura strategica che non consente ai big mondiali di fare grandi pressioni nei confronti della sua politica fiscale e finanziaria. In secondo luogo non ha molto turismo, come invece succede per molti altri paradisi tributari. Questo, in pratica, significa che i paesi vessilliferi della crociata contro le esportazioni di capitali non possono brandire la minaccia del boicottaggio turistico. In più, si fa notare, Panama non è mai stato inserito nella black list dell’Ocse. A dir la verità è comparso nella lista grigia, ma il dato non spaventa più di tanto, se soltanto si considera la facilità con cui qualche giorno fa Cayman e Isole Vergini ne sono uscite semplicemente arrivando alla fatidica soglia dei 12 accordi fiscali stipulati con altrettanti stati. Condizione piuttosto blanda, ma sufficiente a uscire dalla grey list dell’Ocse. Sul piatto della convenienza di una simile operazione pesa anche l’utilizzo dello strumento della fondazione. Quelle panamensi, spiega il sito, sono anonime, ovvero da esse non filtra il benché minimo nome di proprietari, gestori, protetti o beneficiari. Certo, avvisano gli esperti, non si tratta di un sistema molto semplice. Ma se si vuole blindare il proprio patrimonio, commenta ironicamente il sito, non si può rimanere comodamente seduti sulla poltrona di casa. Perché questo, dicono i consulenti, è l’errore che ha fatto chi ha affidato i propri soldi a Ubs. Ovvero alla banca svizzera che è stata costretta a scendere a patti con gli Stati Uniti cedendo una lista di ben 4.500 nomi di suoi correntisti presunti colpevoli di frode fiscale.