Valeria Fraschetti, il Riformista 02/09/2009, 2 settembre 2009
LE MEZZE VEDOVE DEL KASHMIR IN CERCA DEI MARITI DESAPARECIDOS
«Ho perso il conto delle caserme di polizia e dell’esercito a cui ho bussato, ho speso tutti i nostri risparmi per cercarlo, ma da quel giorno non ho mai ottenuto uno straccio d’informazione su mio marito». Quel giorno correva l’anno 1989: una pattuglia delle forze di sicurezza preleva Mohammed dalla sua macelleria, i compaesani assistono, nessuno ha il coraggio di mettersi in mezzo. Da allora sua moglie Farida aspetta che rincasi. «Mi aveva sorriso prima di uscire, come faceva sempre» racconta la sua voce spezzata, ma non rassegnata.
Chissà se il suo burqa nero nasconde le stesse lacrime che rigano i volti di molte altre donne attorno a lei. Sono oltre cento nel Parta Park di Srinagar, arrivate nella capitale estiva del Kashmir indiano da ogni angolo dello stato "occupato", come lo chiamano qui. Chi singhiozza, chi tace con lo sguardo inebetito dal dolore, quasi tutte tengono in mano una foto. Di mariti, figli, fratelli. Tutti scomparsi come Mohammed, tutti inghiottiti da quei buchi neri che un conflitto armato portano con sé.
Il Kashmir non fa eccezione. Da quando vent’anni fa è scoppiata la guerriglia separatista contro il governo indiano, si sono perse le tracce di migliaia di persone. Tra ottomila e diecimila, secondo le organizzazioni per i diritti umani. Giovani per lo più, scomparsi mentre erano in viaggio verso un’altra città o prelevati dall’esercito sull’uscio di casa e finiti in carceri che ne hanno divorato l’identità, se non la vita. Una settimana fa Coalition for Civil Societies, una Ong locale che aiuta anche le vittime di torture, ha dichiarato di aver rivenuto delle fosse comuni con 1500 corpi.
Le autorità indiane contestano le cifre fornite dagli attivisti, sostenendo che i desaparecidos sono attorno ai tremila. Ma, soprattutto, non ci stanno ad addossarsi responsabilità: la maggior parte degli uomini, dicono, è scomparsa per arruolarsi nella militanza separatista. Magari attraversando il confine verso il Pakistan per addestrarsi dai gruppi jihadisti, come Lashkar-e-Toiba e Hizb-ul-Mujahedeen.
Quali che siano le cifre, è certo che le mogli delle persone scomparse vivono ora ai margini della società, costrette in un limbo esistenziale e legale. Chi, come Farida, non può dimostrare di essere vedova, non può ricevere sussidi statali né reclamare diritti sulle proprietà del marito. "Mezze vedove", le chiamano infatti, divorate da un dolore immane come un lutto, ma senza i benefici economici a questo legati. «Non più di 200 donne hanno ricevuto finora l’indennizzo statale di 1500 euro per chi ha perso un familiare nel conflitto», denuncia nel suo ufficio impolverato Parvez Imroz, avvocato dei diritti umani e fondatore di Coalition for Civil Societies.
Alla kafkiana condizione imposta dalle leggi indiane si sommano gli ostacoli della società. Secondo la legge islamica diffusa in Kashmir, per risposarsi le donne devono aspettare sette anni. Anche allora, nessun uomo vuole accogliere in casa una vedova dimezzata con figli al seguito. La loro condizione ibrida non alletta, tanto più in una regione in cui le violenze hanno creato vertiginosi tassi di disoccupazione. Il 95 per cento delle «mezze vedove» sono casalinghe. Così, senza possibilità di proporsi sul mercato del lavoro, non poche finiscono per strada a mendicare o mandano i figli in orfanotrofio.
Ha gli stessi occhi sinceri della foto che mostra, Hamida. Verdi come quelli del fratello Bashir, scomparso il 17 giugno del 2003, quando la polizia fece irruzione in piena notte in casa loro. «Dopo qualche giorno abbiamo saputo che avevano sequestrato altre sei persone col suo nome nella zona, cercavano un Bashir e hanno preso il mio, ma a lui la politica non interessava» dice categorica la ragazza, appena arrivata con sua sorella alla manifestazione dopo tre ore di autobus. «Da allora nostra madre ha iniziato ad accusare problemi al cuore, nostro fratello minore è uscito fuori di testa». Oltre alla tragedia, l’indigenza. A sfamare una famiglia di sei con 3500 rupie, poco più di 50 euro, è lo stipendio da autista di risciò del figlio maggiore.
Hamida ha fame sì, ma solo di giustizia. Per la perdita di Bashir il governo le ha offerto un impiego pubblico: lei l’ha rifiutato. «Non vogliamo soldi, solo la verità» spiega con gli occhi umidi quando tra le astanti arrivate per commemorare la Giornata mondiale dei desaparecidos un donnone in velo bianco le fa eco. «Non siamo qui per chiedere indennizzi, non combattiamo per un territorio, ma per avere informazioni dal governo», tuona dal microfono Parveena Ahangar, che ha creato l’Associazione dei parenti delle persone scomparse nel 1994, dopo la sparizione del figlio sedicenne. Qualche anno ha ricevuto persino una lettera da Stoccolma che la nominava tra i candidati al Nobel per la pace. Ma la sua tenacia in casa non è altrettanto apprezzata. Assieme ad altre donne nel 2005 posò la prima pietra di quello che sarebbe dovuto diventare un monumento per i desaparecidos: in poche ore venne distrutto dalla polizia.
Demolire i simboli della sua sofferenza però non basta a far digerire l’"occupazione". I suoi segni sono ovunque. Dal caotico bazar di Lal Chowk alle rive del lago Dal, dove alloggia la manciata di turisti che azzarda a venire a Srinagar, militari e poliziotti sono ovunque. A occhio, un paio ogni trecento metri. Quando vent’anni fa le aspirazioni separatiste dell’unico stato a maggioranza musulmana dell’India si fecero violente, Nuova Delhi rispose con la forza e trasformò il Kashmir in una delle regioni più militarizzate al mondo. Di soldati oggi ce ne sono 600 mila, quasi uno ogni dieci abitanti.
Ora, rispetto agli anni 90 le violenze sono diminuite e il ministro degli Interni indiano ha annunciato la graduale sostituzione nei centri urbani dei militari con gli agenti della polizia. Sui tempi nessun dettaglio però. E attentati come quelli di ieri, in cui alcuni militanti hanno ucciso due soldati nel pieno centro di Srinagar, non fanno che affievolire le speranze dei kashmiri sulla possibilità di ottenere quantomeno una maggiore autonomia politica da Nuova Delhi.
«Siamo qui per aiutarvi» dice una scritta a un posto di blocco della polizia. Poco lontano, l’ospedale psichiatrico: riceve ogni giorno circa 300 pazienti, vittime invisibili di un conflitto che ha fatto circa 60mila morti. «Le donne sono le più vulnerabili - spiega il dottor Akash Khan - tra le parenti dei desaparecidos la percentuale di quelle che risultano avere i sintomi previsti dalla sindrome da stress post-trauamatico è altissima». Anche Farida soffre di attacchi di panico, ma non sono solo le pillole a darle forza. Pensa che riabbraccerà Mohammed? «Inshallah» dice e finalmente scopre il suo sorriso triste.