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 2009  settembre 02 Mercoledì calendario

QUANDO IL COSMO ENTRO’ IN UN TUBO


Il 30 novembre del 1609, come lui stesso racconta nel «Nunzio Sidereo», Galileo Galilei puntò verso il cielo il cannocchiale che aveva costruito per osservazioni essenzialmente terrestri e scoprì un nuovo cielo. Da allora gli astronomi hanno costruito telescopi sempre più potenti per raggiungere oggetti sempre più lontani: è un nuovo modo di viaggiare nello spazio attraverso le onde elettromagnetiche che i corpi celesti mandano verso di noi dalle profondità del cosmo e anche un modo di viaggiare nel tempo, perché le «cartoline spaziali», pur viaggiando alla velocità della luce, impiegano tempi lunghissimi per giungere a noi.
Ma quale fu il vero ruolo di Galileo nell’invenzione del cannocchiale? I sistemi ottici - si sa - sono ben più antichi. Probabilmente, già 4 mila anni fa, i babilonesi ebbero a disposizione cristalli di quarzo naturali. E con questi capirono di poter ingrandire oggetti lontani. Perché, allora, non furono mai usati in astronomia, se da sempre l’uomo scrutava il cielo e cercava di carpirne i segreti?
Racconta Plinio il Vecchio che il vetro, con cui si forgiano le lenti e gli specchi dei telescopi, fu scoperto dai Fenici, che casualmente sciolsero salnitro in sabbie silicee. Basta poi ritornare alle testimonianze di Giuseppe Flavio sullo strumento costruito nel III secolo a.C. sull’isola di Pharos, all’ingresso del porto di Alessandria d’Egitto: uno specchio metallico posto su una torre alta oltre 100 metri era in grado di mostrare immagini di navi in avvicinamento molto tempo prima del loro arrivo e allo stesso tempo era utilizzato per indicare la strada, intensificando la luce di un fuoco.
Euclide, Archimede e Tolomeo, poi, scrissero testi di ottica geometrica. Lo scienziato arabo Alhazen nel X secolo d.C. compì varie esperienze sulla luce e propose la spiegazione della variazione delle dimensioni apparenti del Sole e della Luna al variare dell’altezza sull’orizzonte come effetto della rifrazione atmosferica. Sperimentò anche gli effetti di ingrandimento di specchi sferici e parabolici, pur senza giungere a proporli come strumenti di aiuto alla visione. Il suo discepolo Witelo, nato in Polonia ma vissuto in Italia, mostrò come il brillare delle stelle sia dovuto alle correnti atmosferiche, mentre Ruggero Bacone, nel XIII secolo, riportò nell’«Opus Maius» importanti esperimenti sulla rifrazione con lenti convesse, facendo anche riferimento a osservazioni di oggetti celesti.
Gli occhiali da vista, inoltre, erano di uso comune alla fine del XIII secolo. La loro invenzione, a fine del 1200, è legata a due italiani, il monaco pisano Alessandro della Spina e l’amico Salvino d’Armati di Firenze. Dunque, la possibilità di costruire strumenti ottici per ingrandire oggetti era nota fin da tempi remoti e questi furono anche puntati verso la Luna e il Sole, come raccontava Bacone. Ma perché, allora, l’astronomia tardò tanto ad usare sistematicamente quegli strumenti per studiare il cielo? L’ovvia spiegazione è che occorreva trovare il tempo e la persona giusti.
Sul tempo va detto che il cielo, fino al tardo Medioevo, fu guardato con rispetto, come la sede del soprannaturale. Per avere osato trastullarsi con Luna e Sole, Bacone venne accusato di stregoneria. Solo nell’Inghilterra del XVI secolo poterono riprendere gli esperimenti e a Oxford Leonard Digges e il figlio Thomas costruirono uno strumento che potrebbe essere considerato il primo telescopio riflettore.
Ma l’interesse per il cannocchiale fu anche sponsorizzato dalle attività belliche. E’ tradizione che nacque in Olanda, quando guerreggiava contro la Spagna. Nel 1608 l’ottico Hans Lippershey presentò una richiesta di patente agli Stati Generali e al principe Maurice di Nassau, ottenendo, però, una risposta incerta. Nello stesso anno altri due ottici olandesi presentarono analoghe richieste, James Metius di Alkmaar e Zacharias Jansen di Middleburg. A causa del fatto che ormai l’invenzione era divenuta di pubblico dominio, tuttavia, nessuna patente o esclusiva venne concessa, e la notizia si diffuse in tutta Europa. Nel maggio 1609 arrivò a Milano e poi a Padova e qui incontrò il nostro Galileo, la persona giusta per usarla scientificamente.
Racconta nel «Nunzio Sidereo»: «Preparai dapprima un tubo di piombo alle cui estremità applicai due lenti, entrambe piane da una parte, e dall’altra una convessa e una concava; posto l’occhio alla parte concava vidi gli oggetti abbastanza grandi e vicini, tre volte più vicini e nove volte più grandi di quanto non si vedano a occhio nudo». Poi - aggiunge Galileo - «preparai uno strumento più esatto, che mostrava gli oggetti più di sessanta volte maggiori. E finalmente venni a tanto da costruirmi uno strumento così eccellente, che gli oggetti visti per il suo mezzo appaiono ingranditi quasi mille volte e trenta volte più vicini che visti a occhio nudo. Ma lasciate le terrestri, mi volsi alle speculazioni del cielo; e primamente vidi la Luna».
In quegli anni sistemi ottici simili vennero costruiti e utilizzati, anche per l’astronomia, in Inghilterra da Thomas Harriot, da Sir Walter Raleigh e da Sir William Lower, mentre in Olanda da Simon Marius, Johannes Fabricius e Cristoph Scheiner. Molto entusiasmo dimostrò Keplero, che tuttavia non costruì mai un telescopio. Ma in che senso il ruolo di Galileo fu fondamentale?
Anzitutto, pur con uno strumento primitivo, eseguì osservazioni pazienti e accurate. Va detto che il cannocchiale galileiano aveva un limitato potere di ingrandimento e un campo di vista molto piccolo. In cielo permetteva di vedere una regione pari a metà delle dimensioni apparenti della Luna. Il solo puntare lo strumento su un pianeta o una stella e seguirne il moto era un’impresa non indifferente. E poi bisognava avere un’idea di che cosa cercare. Ad esempio Thomas Harriot disegnò una primitiva mappa della Luna alcuni mesi prima di Galileo, ma non si chiese che cosa significassero le regioni di varia colorazione. Galileo, invece, comprese di osservare montagne e valli sulla Luna e misurò le altezze delle montagne con lo studio delle ombre.
Quindi, puntò il disco di Giove e nel gennaio 1610, con un cannocchiale a 30 ingrandimenti, di cui aveva lavorato le lenti, scoprì i quattro satelliti medicei di Giove e, infine, vide miriadi di stelle nella Via Lattea. Racconta sempre nel «Sidereus Nuncius»: «Ma oltre le stelle di sesta grandezza si vedrà col cannocchiale un così gran numero di altre, invisibili alla vista naturale, che appena è credibile: se ne possono vedere infatti più di quante ne comprendano le altre sei differenti grandezze; le maggiori di esse, che possiamo chiamare di settima grandezza o prima delle invisibili, con l’aiuto del cannocchiale appaiono più grandi e più luminose che le stelle di seconda grandezza viste a occhio nudo».
Nell’autunno del 1610 Galileo osservò le fasi di Venere e nel 1611 le macchie solari. Priorità nelle osservazioni delle macchie fu disputata dal gesuita Cristoph Scheiner, anche se la prima pubblicazione è di Johannes Fabricius. Ma la priorità non conta: nelle lettere all’amico Marc Welser sulle macchie solari Galileo interpreta scientificamente i loro moti e la loro natura, non ne descrive solo l’esistenza. Nelle lettere espresse anche il suo vero obiettivo: dare definitivo supporto alla teoria eliocentrica copernicana del Sistema Solare. E di qui nacquero le sue dispute con le filosofie e le teologie, culminate con la sua condanna da parte della Chiesa cattolica.
Galileo fu dunque la persona giusta ad usare il cannocchiale, perché la sua preparazione e il metodo scientifico da lui stesso teorizzato - il metodo che la scienza usa tuttora - gli consentirono di usare il cannocchiale per studiare gli oggetti celesti e non solo per guardarli. Il suo percorso scientifico è ben illustrato nel «Sidereus Nuncius» e nelle successive opere, prima fra tutte il «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo» del 1632. La sua definitiva conclusione era, appunto, che le osservazioni sul moto dei pianeti confermavano la teoria eliocentrica copernicana e che l’Universo delle stelle è molto più vasto del Sistema Solare. Sarà Isaac Newton a dare un fondamento dinamico teorico a queste conclusioni. Ma la nuova astronomia iniziò da quel piccolo cannocchiale usato nel modo giusto e da quanto fu scritto in quel libretto, il «Sidereus Nuncius».