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 2009  settembre 02 Mercoledì calendario

Ancora un libro sulla pena capitale? La domanda è legitti­ma, soprattutto a fronte della pressoché ster­minata letteratura dedicata all’argomento, anche soltan­to a partire dal severo giudi­zio formulato da Cesare Bec­caria («né utile, né necessa­ria ») poco meno di 250 anni fa

Ancora un libro sulla pena capitale? La domanda è legitti­ma, soprattutto a fronte della pressoché ster­minata letteratura dedicata all’argomento, anche soltan­to a partire dal severo giudi­zio formulato da Cesare Bec­caria («né utile, né necessa­ria ») poco meno di 250 anni fa. Eppure il volume di Franklin E. Zimring, famoso penalista e criminologo del­l’Università di Berkeley, da poco pubblicato in Italia nel­la limpida traduzione di Si­mona Silvani ( La pena di morte, Il Mulino, pp. 368, e 32) non corre il rischio di ripetere cose già note, grazie alla originalità della sua impostazione, tutta riferita ai grandi temi della odierna politica criminale statunitense, su alcuni dei quali si è già soffermata Eva Cantarella su queste colonne. Come nota Cristina de Maglie nelle sue pagine intro­duttive, il problema di fondo affrontato dal volume è quel­lo relativo alla persistente vi­genza ed attualità della pena di morte in parecchi Stati della Confederazione ameri­cana (dal 1976 al 2008 sono state giustiziate negli Usa 1.136 persone, mentre anco­ra 3.420 attendono l’esecu­zione nel braccio della mor­te), cioè in un Paese che si vanta di essere la più grande democrazia del mondo. Un problema acuto, che per un verso colloca l’ordinamento americano in controtenden­za rispetto all’indirizzo aboli­zionista ormai prevalente presso la comunità interna­zionale, come è dimostrato anche dalla recente risoluzio­ne di moratoria delle esecu­zioni capitali approvate in se­de Onu (2007). E che, per converso, fa emergere uno degli aspetti di maggiore in­coerenza nel seno del mede­simo ordinamento. Proprio questa realtà di in­coerenza interna, del resto esplicitamente evocata an­che dal sottotitolo del volu­me («Le contraddizioni del sistema penale americano») segna la direttrice lungo cui soprattutto si sviluppa l’ana­lisi di Zimring. Il quale si ren­de ben conto della immagi­ne schizofrenica offerta da un sistema che registra la compresenza e la necessaria convivenza di due culture ispirate ad opposti atteggia­menti di fronte al potere pu­nitivo statuale. Da un lato, la cultura fortemente garanti­sta ancorata ai princìpi del giusto processo, e, dall’altro, la cultura riconducibile al­l’antica ideologia (che anco­ra di recente ha trovato con­forto nella giurisprudenza della Corte Suprema federa­le) della morte come sanzio­ne penale estrema. A quest’ultimo proposito l’autore pone in risalto, qua­le elemento qualificante per la comprensione di una simi­le realtà, la «trasformazione simbolica» verificatasi nella percezione della pena di mor­te da parte della società ame­ricana negli ultimi decenni del secolo scorso. Da legitti­mo atto punitivo dello Stato, inteso quale espressione di determinate scelte di politi­ca criminale, essa infatti sem­bra essersi soprattutto tra­sformata in un rimedio diret­to ad arrecare conforto alle vittime del reato, nel quadro di un particolare «program­ma di servizio» a sollievo del­le stesse o dei loro parenti. All’origine di una tale me­tamorfosi, evidentemente ri­volta a rendere più accettabi­le ad una certa opinione pub­blica l’idea della sopravviven­za della pena capitale, Zi­mring sottolinea un obietti­vo collegamento (anche di ti­po territoriale) con la tradi­zione dei «vigilantes». Cioè di quei gruppi di giustizieri privati che, alla fine dell’800, erano dediti a «rendere giu­stizia » anche fuori delle leg­gi dello Stato, in nome degli interessi della comunità, fi­no alla diffusa pratica delle esecuzioni sommarie me­diante linciaggio. Ovviamente l’esistenza di un legame tra la ideologia dei «vigilantes» (con la loro etica perversa a sfondo ven­dicativo su basi comunita­rie) e l’odierno radicamento della pena di morte in molte aree della società americana fornisce un indice importan­te delle ragioni che ancora impediscono l’affermarsi ne­gli Stati Uniti della tesi aboli­zionista: tesi che pure sareb­be la più consentanea ai valo­ri delle garanzie fondamenta­li e della legalità democrati­ca tipici degli strati più evolu­ti della medesima società. Ma, se questo è vero, solo il superamento di un tale con­flitto tra culture antitetiche potrà davvero avviare quel­l’ «inizio della fine» della pe­na di morte, che Zimring pronostica come un epilogo «inevitabile».