Marco Viviani, Libero 01/09/2009, 1 settembre 2009
«L’ARTE VALE MENO DI UN BOND»
Charles Saatchi era uno dei pubblicitari più famosi del mondo quando, alla fine degli anni Ottanta, decise di investire il suo talento per gli spot nella cultura. Questo iracheno nato 66 anni fa da una famiglia ebrea di Bagdad ha lasciato il segno nel mondo della pubblicità («lo consiglio a tutti, specialmente se non avete titoli accademici») con l’agenzia, fondata insieme al fratello Maurice, diventata famosa grazie allo slogan Labour isn’t working, che nel ”79 fece volare Margaret Thatcher a Downing Street. Poi scelse di dedicarsi all’arte. Iniziò battendo palmo a palmo le scuole per trovare nuovi talenti da lanciare, fregandosene di galleristi eminenti, critici e intellettuali. Nacque così il fenomeno degli Young British Artists, i più noti dei quali sono Damien Hirst (creatore degli squali in formaldeide, lanciato durante la celeberrima mostra Sensation del 1997) e Tracy Emin (che espose, nel 2007, il suo letto pieno di pattume, cartacce, assorbenti eccetera).
In breve tempo, Saatchi entrò nell’olimpo dei galleristi, scalò la classifica di ”quelli che contano”. Ora - forse stanco delle montagne di aneddoti e leggende sul suo conto o pensando a un nuovo mondo per far parlare di sé in vista del suo reality artistico modello X-factor che il secondo canale della Bbc manderà in onda a novembre - il vecchio Charles ha deciso di svelare i segreti del suo successo. Dove? In un libro autobiografico intitolato My name is Charles Saatchi, and I am an Artoholic (in uscita in questi giorni per Phaidon, pp. 160, euro 8,5) e in una lunga intervista pubblicata ieri dal quotidiano britannico Guardian. Si tratta di materiale molto interessante, non solo per la marea di aneddoti e cattiverie che Saatchi snocciola, ma anche perché aiuta a farsi un’idea di come nascano veramente i fenomeni artistici contemporanei.
La prima regola di King Charles per il bravo gallerista è, in sostanza, la ricetta del buon pubblicitario: «Un pizzico di talento, una sana dose di cinismo e una certa propensione a rubare le idee di qualcun altro». Seconda regola: i collezionisti non contano nulla: «Sono del tutto insignificanti. Ciò che è importante si salvi è l’arte. Compro l’arte che mi piace, poi quando mi va, la vendo e ne compro ancora. Non significa che abbia cambiato idea sull’arte che ho finito per vendere: solo che non voglio accumulare tutto e per sempre».
Il vero amore
Discorso molto diverso sugli artisti: «Sono stato molto fortunato a vedere il lavoro di alcuni grandi artisti all’inizio della loro carriera, ma non ho il dono infallibile di scovare i vincenti», spiega Saatchi. «Penso sia onesto affermare che ho portato Cindy Sherman nella sua prima collettiva; ho portato gran parte dei lavori di Jeff Koons in una piccola e ormai defunta galleria per artisti emergenti all’East Village a New York. Ma la verità è che ho perso almeno altrettanti artisti di quanti ne abbia scovati. Se studi una grande opera d’arte, capisci che l’artista è una sorta di genio. Essere un bravo artista è il lavoro più duro che puoi fare, e devi essere un po’ tocco per farlo. Io li amo tutti». Al di là delle roboanti dichiarazioni, però, Charles è anche consapevole del suo ruolo dirompente sul mercato. Se la bolla dell’arte è cresciuta sempre più (guardare per credere le quotazioni delle opere contemporanee all’asta negli ultimi anni: mostruose) e ora rischia di scoppiare, in parte è anche a causa sua. Saatchi dice di essere tra i responsabili della «natura speculativa del mercato dell’arte contemporanea».
Del resto «gli artisti hanno bisogno di collezionisti, di molti collezionisti, che comprino i loro lavori». Qualche affare, però, ora che il mercato comincia a sgonfiarsi, è andato storto anche a lui. «Non so quanto ho perso», spiega, «devo ancora dare un’occhiata». Sul futuro, tuttavia, ha le idee molto chiare. Quando il cronista del Guardian gli chiede quali saranno gli artisti che fra cent’anni resisteranno all’usura del tempo, non ha dubbi: «I libri d’arte del 2105 saranno tanto brutali nel valutare il Ventesimo secolo quanto lo sono quelli attuali su tutti gli altri secoli. Tutti gli artisti all’infuori di Jackson Pollock, Andy Warhol, Donald Judd e Damien Hirst saranno note a piè di pagina». Anche perché, secondo Saatchi, oggi il talento è merce rara: «C’è una così scarsa disponibilità di talento... è più facile far passare la mediocrità per brillantezza che sottovalutare un genio».
Tanta fortuna
Per questo motivo, qualsiasi opera può rivelarsi un investimento fortunato: «Non ci sono regole per gli investimenti. Uno squalo può essere buono, la merda d’artista può essere buona. L’olio su tela può essere buono. C’è una squadra di curatori, lì fuori, pronta a occuparsi di qualunque cosa un artista decida essere arte».
Poco importa, dunque, che molte opere da lui vendute più che a capolavori assomiglino a costosissimi soprammobili (ad esempio quelle di Damien Hirst, per stessa ammissione di Saatchi): «Potremmo anche dire che i dipinti di Rothko assomigliano a dei bei tappeti. Non è un crimine per l’arte essere decorativa».
Charles dice la sua anche sulla conservazione del patrimonio culturale. Pensa, per esempio, che i governi dovrebbero spendere un sacco di soldi per riportare in patria i propri capolavori: «A costo di essere linciato - un’altra volta - dalla ciurma dei critici d’arte, penso non ci sia più bisogno di salvare quadri per la nazione, a spese del sostegno all’arte contemporanea: che differenza fa se un Tiziano è esposto alla National Gallery, al Louvre o agli Uffizi? Non siamo nel Diciottesimo secolo: la gente viaggia. Non è necessario essere nazionalistici con i tesori dell’arte mondiale».
In ogni caso, è consigliabile anche per i privati non spendere troppi soldi in quadri e sculture. Se uno avesse qualche migliaio di euro, secondo King Charles farebbe meglio a comprare «premium bond. L’arte non è un investimento a meno che tu non sia molto, molto fortunato e batta i professionisti sul loro stesso terreno».