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 2009  agosto 30 Domenica calendario

Quando, circa dieci anni fa, il contenuto dello studio londinese di Francis Bacon fu trasportato in blocco a Dublino, la maggiore difficoltà consistette nel preservare la polvere che vi regnava sovrana

Quando, circa dieci anni fa, il contenuto dello studio londinese di Francis Bacon fu trasportato in blocco a Dublino, la maggiore difficoltà consistette nel preservare la polvere che vi regnava sovrana. Il resto - un fantastico accumulo di spazzatura e testimonianze preziose: carte, fotografie, ritagli, bottiglie di champagne vuote, multiformi contenitori di pittura (tubetti, pastelli, barattoli, bombolette) mescolati a scatole di conserva, pennelli, libri, stracci, tele squarciate, dischi, attrezzi, spugne e vestiti vecchi; in totale più di settemila oggetti - fu rilevato, catalogato, mappato con cura maniacale e ricostruito in maniera apparentemente identica alla Hugh Lane Gallery. Un´operazione costata un milione e mezzo di sterline e durata mesi. Solo per trasportare il tavolo e quanto vi era accatastato furono necessarie otto settimane di lavoro. In quanto alla polvere, la preziosa polvere accumulatasi per tre decenni e che tanta parte aveva avuto nella ricerca pittorica di Bacon, fu raccolta, impacchettata, etichettata «Bacon´s Dust» e ridistribuita con cura sul tappeto impastato di pigmenti che copre il pavimento nella nuova sede, ricreando la materia viscida e multicolore che ai rari visitatori richiamava immancabilmente il compost, il prezioso terriccio fertile rigenerato dalla decomposizione di materiali organici. Per trent´anni il piccolo edificio al 7 di Reece Mews era stato abitazione e laboratorio, rifugio di un solitario e allo stesso tempo sede di una corte bislacca e ambigua, formata da artisti, mercanti, critici ma anche ragazzi di vita, ladruncoli e piccoli spacciatori. Una corte che ruotava intorno ad uno dei massimi artisti del secolo scorso. Esservi ammesso rappresentava un´esperienza straordinaria, il cui resoconto, come nel caso del libro di Franck Maubert, non poteva prescindere da una meticolosa descrizione dell´ambiente. Per arrivarvi ci si arrampicava su una scala talmente stretta e ripida che i quadri che uscivano dallo studio venivano immancabilmente graffiati ai bordi. Una corda faceva le veci di corrimano, testimonianza della primitiva modestia della sistemazione: un tempo i mews erano edifici di servizio, usati come rimesse e alloggi per cocchieri. Il piano superiore, oltre allo studio, ospitava una camera da letto scenograficamente melodrammatica - velluti, coperte damascate - e un bagno che fungeva anche da cucina, ingombro di biancheria stesa ad asciugare e di padelle rigurgitanti di pigmenti e colori. Bacon vi era arrivato nel 1961 dopo un lungo pellegrinare per Londra, alla ricerca di un luogo adatto per lavorare. Tentativi falliti uno dopo l´altro lo avevano portato dall´East End (allora troppo squallida), ai bordi del fiume (troppa luce) fino a quartieri borghesi in cui aveva perfino arredato un ambiente con tende e moquette (troppo noioso). A Kensington invece si era subito sentito a proprio agio e lo studio divenne il solo punto fisso di una vita complicata. Il caos ne era parte integrante. «Mi sento a casa nel caos», diceva, «perché il disordine suscita delle immagini, ad ogni buon conto mi piace, potrebbe essere lo specchio di quello che avviene nella mia mente». Nella stanza la luce proveniva dal soffitto, ed era riverberata da un grande specchio rotondo, rotto e consumato, che dominava la parete di fondo. Uno specchio nero, simile ad uno strumento divinatorio, che sottolineava la qualità di antro magico, di laboratorio alchemico di cui l´ambiente era impregnato. Bacon lavorava solo la mattina, nella più assoluta solitudine, come uno sciamano in trance, compiendo gesti istintivi e spesso violenti. La pittura veniva scaraventata sulle tele, soffiata o sputata insieme all´alcol, graffiata usando gli oggetti più disparati, scope, pettini e spezzoni di bottiglia, oppure strofinata con stracci, brandelli di pantaloni di velluto o vecchi golf di cachemire. C´era nella violenza del gesto, nella ricerca angosciante del mezzo, un aspetto erotico che all´artista stesso era perfettamente evidente. Blowjobs, chiamava alcuni dei suoi interventi sulla tela. Autodidatta, la sua sperimentazione con il materiale pittorico ed i sistemi per usarlo era virtualmente infinita. Passava dai pastelli alla vernice per automobili, dall´ovatta alla polvere raccolta dal pavimento e impastata col colore per rendere la morbidezza della flanella in un ritratto, a sabbia e terra spalmate sul quadro per raffigurare appunto terra e sabbia. La tela spesso era usata a rovescio, dal lato grezzo, proprio per sfruttarne tessitura e granulosità.  significativo che, tra le migliaia di oggetti raccolti e catalogati dagli archeologi, veri professionisti dello scavo, incaricati del trasloco dello studio, non sia stata rinvenuta neppure una tavolozza. In compenso i muri, le porte e ogni superficie disponibile erano impastati di colore, e pesantemente marcati da gesti di forza. Il grande specchio rotondo era stato rotto nel corso di una rissa. Spesso lo studio era occupato da gruppi di ragazzi di vita; in loro presenza l´accoglienza agli estranei poteva diventare difficile, aggressiva, sia verbalmente che fisicamente. Incombeva la sensazione di un gioco perverso con forze oscure e pericolose. Talvolta Bacon lasciava in giro fasci di banconote, che regolarmente sparivano, una prova soddisfacente del marcio che vedeva nei suoi compagni e, con orgoglio, in se stesso. La scelta fatta dal suo ultimo amante ed erede di donare il contenuto dello studio alla città di Dublino, rappresenta in qualche modo una sorta di riconoscimento postumo all´infanzia dell´artista. Dublino era la città in cui, nel 1909, Bacon era nato. La sua famiglia era inglese, numerosa e borghese. Il padre allevava cavalli da corsa e con lui Francis entrò presto in rotta di collisione. Fu un rapporto di odio, amore e attrazione sessuale che per tutta la vita pesò sulla sua psiche. Secondo una storia ormai leggendaria fu cacciato di casa a sedici anni perché scoperto ad indossare la biancheria intima della madre. Fatto frustare dagli stallieri di casa, finì col trasformare la punizione in un´epifania erotica. Delle sue tendenze omosessuali e sadomasochistiche non fece mai mistero. Del suo strano e anticonvenzionale narcisismo neppure. Sotto i pantaloni strettissimi ed il sempiterno giubbotto di cuoio nero, cimelio giunto a Dublino insieme al materiale dello studio, indossava a quanto pare calze a rete e biancheria femminile. Il volto, forse liftato, era pesantemente imbellettato, i capelli tinti con il lucido da scarpe e i denti, sempre secondo la leggenda accuratamente coltivata dell´artista maledetto e fuori da ogni schema, lavati col vim. Questa era la mitologia, meticolosamente costruita, che aureolava Francis Bacon. Ne facevano parte l´aneddotica sul suo passato, gli amori tragici, le frequentazioni losche e le infinite provocazioni. Da questo punto di vista lo studio di Reece Mews, così come la Conversazione con Bacon, pubblicata da chi ha avuto la fortuna di poterla documentare, sono profondamente rivelatori della vera essenza del suo operato. O forse no. Le tracce, le stropicciature, gli sfregi che segnano le foto che a centinaia si accumulavano sul pavimento dello studio potrebbero testimoniare un gesto, un intervento, un interesse, oppure la più assoluta casualità. Le parole riportate potrebbero essere verità o sottile provocazione. Studiosi e ricercatori hanno a disposizione materiale sufficiente per interrogarsi per decenni sui meccanismi di creazione di un genio che fu anche un uomo profondamente tormentato ed infelice.