Varie, 31 agosto 2009
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Hatoum Mona
• Beirut (Libano) 1952. Artista • «[...] famiglia di origine palestinese. Ha 23 anni quando va a Londra per un breve soggiorno e non riesce più a rientrare in Libano dove è scoppiata la guerra civile. Oggi vive tra Londra e Berlino, ma è un’instancabile viaggiatrice, è sempre lì con la valigia (oggetto che compare in una sua bellissima opera intitolata Traffic) a cercare qualcosa in ogni luogo: dal Maine al Messico, da Gerusalemme al Belgio, posti in cui ha fatto nascere alcune delle sue creazioni. Tutta la sua opera fa i conti con l’idea dell’esilio, della perdita dello spazio in cui tornare. Esiliata dalla terra, esiliata dalla casa, dal corpo della madre, a volte anche dal suo. I suoi lavori sono ambigui, intensi, aspri e drammatici. Seducono e nello stesso tempo respingono, affascinano e fanno paura. Con tecniche diverse (dal video al ricamo) racconta la condizione di incertezza e di solitudine della donna nel mondo. A Beirut, giovanissima, compra un libro su Magritte e il surrealismo, alleggerito da una componente concettuale, rimarrà sempre la sua fonte di ispirazione. Sono surrealisti ad esempio i suoi oggetti quotidiani trasfigurati: mettono in scena quasi sempre un dramma. C’è una tavola apparecchiata ma sul piatto vengono servite raccapriccianti immagini dell’interno di un corpo. Quello che sembra un letto è in realtà un’enorme grattugia; si chiama Dormiente ma ti ci puoi solo scorticare. Lo zerbino ti dice Welcome, tuttavia è fatto di punte acuminate. Una migrante come lei naturalmente parla attraverso le mappe: ce ne sono alcune su cui ha disegnato delle tracce, una è realizzata con il cotone, l’altra è creata per sottrazione: qui i confini incerti del mondo sono dati dalla cancellazione della tessitura su un tappeto. Uno dei lavori più poetici è la keffieh tessuta con i capelli umani, così come la collana. Il momento di speranza è custodito da una piccola opera di sabbia su cui gira una lama che da una parte la intaglia e la ferisce e dall’altra la leviga, come se la medicasse. [...]» (Lea Mattarella, ”La Stampa” 7/4/2008) • «[...] alla Biennale del 1995 [...] presentò al pubblico attonito il suo Corps étranger, una gastroscopia proiettata a terra che chiedeva l’attraversamento di coraggiosi visitatori e invitava a un voyeurismo sfacciato della propria intimità. [...] Teme i giornalisti che le appiccicano una etichetta e vogliono forzare entro dei confini politici ben precisi le sue opere. Hatoum da molti anni lavora su temi quali l’incertezza, i conflitti, la geografia imposta dall’alto, gli ambienti domestici che si ribaltano in luoghi minacciosi, dove il quotidiano si affronta in un perenne stato di allerta. Lo fa con naturalezza, un po’ guidata dalla sua storia, un po’ perché ”sono temi universali, dell’umanità intera, non mi piacciono gli slogan. Parlo molto chiaramente attraverso l’arte, integrando il mondo dentro un orizzonte estetico, altrimenti avrei fatto la carriera politica...In realtà, è tutto molto più complesso”. D’altronde, risulterebbe assai difficile - oltre che insensato - tentare irretirla in cliché: proprio lei che rappresenta il planisferio (Map) con scivolose biglie di vetro, oppure mette al centro di un atlante immaginario l’Africa, rovesciando ogni preconcetto sui ”mondi in via di sviluppo” o ancora disegna la Palestina cucendola su un cuscino dei sogni e intreccia con i suoi capelli una kefiah. [...] Esterno e interno sono i due termini che l’artista ama confondere nei suoi interventi. Utensili domestici non addomesticati (anzi, pericolosi, con punte acuminate o fuori dimensione, giganti inquietanti di case impossibili), stanze chiuse da reticolati fitti e spinati (eppure geometricamente perfetti, come può esserlo un ”cubo”), cucine elettrificate che tengono a bada gli intrusi; infine, l’uso reiterato del corpo e dei suoi scarti, soprattutto i capelli. ”Li colleziono da anni. Quando mi sono trasferita da Beirut a Londra mi colpiva il fatto che la cultura occidentale avesse divorziato dal proprio corpo. Eppure è la nostra prima fonte di esperienza. Ho usato fin dall’inizio, nelle mie opere,materiali e residui della mia fisicità. Per esempio, i capelli: sono un simbolo di bellezza ma quando vengono tagliati e non stanno più al loro posto, in testa, diventano qualcosa di sporco, da spazzare via”. In Hair Necklace, è evidente il cortocircuito ideato da Mona Hatoum: il collier che ha al posto delle perle borghesi delle palline di capelli, viene esposto da Cartier. Non è un gioiello di valore, è realizzato con una materia umile e acquista una godibilità solo in quanto ready-made artistico. Così come le splendenti bombe - in vetro di Murano - che l’artista colloca con disinvoltura in una bacheca del museo: ad un primo, distratto sguardo, sembrano delle palle di Natale, danno un’idea di festa e di luci, ma da vicino rimandano alla guerra, alla sofferenza e alle contraddizioni che costellano l’esistenza. Fra le sue indagini più insistite, una posizione speciale va assegnata all’ambiente casalingo: a volte è rappresentato come una spoglia cella, una camera di ospedale oppure è un ”bunker” perturbante e emotivo. C’è qualcosa che Mona Hatoum vuole dire a proposito delle relazioni di coppia? ”Nei miei lavori - afferma - sottolineo sempre gli opposti, le ambiguità insite in ciò che sembra innocuo. Oggetti esteticamente belli sono pericolosi. Introduco dei disturbi psicologici e fisici per distogliere lo spettatore da quello che si aspetta. La casa, che viene rappresentata come nido, rifugio, luogo dell’accudimento e del nutrimento dei bambini, può essere invece un posto dove si erigono delle barricate e dove circola molta violenza”. L’antidoto a questo senso di disagio e di vertigine che si ha gironzolando fra le installazioni di Mona - dalle cartine di città come Beirut, Baghdad e Kabul con i crateri dei bombardamenti ritagliati in stile origami a testimoniare distruzioni e ricostruzioni dei palazzi abbattuti fino alle palle di cannone sparse sul pavimento che ”fioriscono” dai grani del rosario musulmano - è nella asciutta, rigorosa e organica sequenza delle opere. C’è anche Witness a raccontare quella storia di conflitti, di passato perduto e di memoria calpestata: una statua in biscuit, che fa il verso alle porcellane eleganti del Settecento presenti alla Querini e ”copia” il monumento ai martiri che si trova centro di Beirut. Il ”testimone” di Hatoum, a dispetto del suo fascino levigato, ha dovuto fare i conti con il tempo: oggi è bucherellato, mutilato di un braccio, duramente provato dalla guerra» (Arianna Di Genova, ”il manifesto” 28/5/2009).