FRANCESCO ERBANI, Repubblica 28/8/2009, 28 agosto 2009
”Leggete per essere cattivi”: Sermonti e il vizio dei libri - Chi cercasse la progenie della cultura in piazza, delle folle in ascolto di romanzieri e filosofi, si imbatterebbe in Dante
”Leggete per essere cattivi”: Sermonti e il vizio dei libri - Chi cercasse la progenie della cultura in piazza, delle folle in ascolto di romanzieri e filosofi, si imbatterebbe in Dante. E in Vittorio Sermonti che a metà degli anni Novanta si avventurò nella lettura integrale, sera dopo sera, per cento sere, di tutta la Commedia. Accadeva a Ravenna, nella chiesa di san Francesco, alle spalle della tomba in cui riposa il poeta. Poi vennero Roma, i Mercati Traianei e il Pantheon, e quindi Firenze, Milano, con concorso di popolo sempre crescente. E infine l´Eneide a Milano. Sermonti, che è stato giornalista, insegnante di liceo, consulente editoriale, regista radiofonico, compirà ottant´anni a fine settembre e sarà a Mantova, al Festivaletteratura. Per festeggiarlo (ma forse l´ha fatto anche lui per festeggiarsi), Rizzoli pubblica Il vizio di leggere (pagg. 632, euro 21), una nutrita antologia, una personalissima galleria di centosessanta brani letterari e non letterari scelti, spiega Sermonti, «con sconcertante arbitrarietà». L´antologia nasce come seguito di una trasmissione radiofonica: si va da Tolstoj alle iscrizioni funerarie romane, da Auden, Brodskij e Faulkner fino alle Controindicazioni, Precauzioni, Interazioni dei foglietti illustrativi di un farmaco, da Melville, Pound e Yehoshua alle Lunghezze Minime Permesse dei pesci in un mercato veneziano o all´Almanacco illustrato del calcio che segnala quando il Milan precipitò in serie B. Sono brani che condensano, appunto, una pratica lunga più di settant´anni, che ha messo nel conto «anche il rischio di imbattersi in parecchie schifezze», ma che è stata condotta «con la perseveranza, con l´abnegazione, con l´incoffessabile voluttà» con cui si coltivano i peggiori vizi. «Sa una cosa che non mi piace di molte di queste iniziative di cultura in piazza?» Me la dica. «La troppa esibizione civica che accompagna l´invito alla lettura. Tipo: leggete perché diventerete più buoni». In un paese dove si legge così poco serve anche questo, o no? «Può darsi. Ma io credo che occorra indurre alla lettura come a un vizio che rende più complicata, ma anche più bella la vita. Un giorno leggevo Dante a Firenze. Venne da me l´assessore alla cultura, mi chiese di andare in una scuola elementare a spiegare l´Inferno. Vi piacerà moltissimo, dissi a quei bambini, perché racconta cose cattivissime, come in fondo cattivissimi siete voi. Se dovessi rivolgermi a dei ragazzi che le fanno di tutti i colori, direi appunto così: vi propongo la lettura, un vizio più complesso di quelli che praticate». Leggere tutto, da Lucrezio e Rilke ai graffiti sul muro che trova sotto casa a Roma? «Questi ultimi non li posso evitare. Trasecolo nel leggerli e continuo a trasecolare quando li trascrivo. Però mi stupisce sempre la tensione stilistica della scemenza. Sono molto attratto dalle stupidaggini, che poi non sono la cosa peggiore del mondo. E neanche sono l´opposto dell´intelligenza, che invece seguono da presso, come un´ombra». Lei citava Dante e le letture in piazza. Da allora è un fiume in piena, non di Dante, ma di letture in piazza. Che ne pensa? «Un po´ storco il naso. Ci vedo dell´eccesso. Mi pare che l´aspetto della performance abbia assunto un ruolo preponderante. E poi se un romanziere inglese molto bravo viene a leggere il brano di un suo romanzo molto bello, va benissimo. Va benissimo anche se vengono cinque scrittori inglesi. Ma se sono cinquecento non va più bene, anche perché quattrocentocinquanta saranno mediocri». Non l´è piaciuto Roberto Benigni? «Ha fatto cose molto diverse da quelle che ho fatto io. Un attore interpreta anche i personaggi che Dante incontra. Io interpreto solo Dante, non mi interessa sceneggiarlo. E´ lui solo il personaggio e la mia voce deve compitare ciò che quel personaggio ricorda. E poi c´è un´altra cosa». Cosa? «Non ho sottolineato solo il Dante più patetico, quello del canto V dell´Inferno e di Paolo e Francesca, ma anche quello noioso, quello delle macchie lunari, delle leggi scientifiche e astronomiche, tutte in gran parte superate. Ma la noia è un coibente della nostra vita, consente di legare nozioni complesse e di rendere comprensibili molte cose. D´altronde lo hanno capito, per esempio, anche al festival della filosofia di Modena, dove cose apparentemente noiose sono servite per stanare questioni in cui nessun telegiornale si inoltrerebbe». Come hanno reagito i dantisti alle sue letture di Dante, alle edizioni della Commedia che lei ha commentato? «Lo fossi stato io, dantista, mi sarei molto scocciato: "Cosa vuole questo qui? Che titoli ha?". Devo dire però che le mie cose sono piaciute a Pier Vincenzo Mengaldo, a Marco Santagata, a Nino Borsellino e ad altri. Poi la predilezione che mi ha accordato Gianfranco Contini è stata accolta così così dai continiani radicali e da chi ce l´aveva con Contini, come Franco Fortini». Quando ha conosciuto Contini? «Lo vedevo spesso a casa di Roberto Longhi, a Firenze. Stavo zitto e gli dedicavo un´ammirazione muta. Avrò scambiato con lui una ventina di parole. Poi quando proposi di leggere Dante alla radio, era il 1985, andai a trovarlo. Stava un po´ sulle sue e mi disse: «Mi foni». Parlava così, voleva dire «Mi faccia sentire». Gli declamai il V dell´Inferno. E lui: «Il solfeggio è perfetto, ma ora me lo legga». Alla fine fu d´accordo. E così cominciai». Il Dante scelto per Il vizio di leggere è il Dante del Convivio. Perché? «L´ho fatto contro lo snobismo di qualche linguista politicamente corretto o di qualche demagogo che vuole dimostrare come l´italiano, stretto fra l´inglese e i dialetti, abbia i giorni contati. Dante si trovò a fare i conti con denigratori di specie analoga. La furia morale del suo caratteraccio e la spietata esattezza del suo genio prefigurano negli antenati pusillanimi i loro nipotini bastardi».