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 2009  agosto 21 Venerdì calendario

LIBRO MONCALVO SUGLI AGNELLI/3


CANI E CAMERIERI, I PUNTI DEBOLI DI MARELLA
Fine dicembre del 2007. Mancano un paio di settimane alla prima udienza per il rendiconto in Tribunale a Torino, fissata per il 10 gennaio. Sono giorni in cui gli avvocati di Donna Marella, Gabetti, Grande Stevens e Maron devono depositare le loro comparse difensive. La battaglia si sposta dai giornali ad un’aula di giustizia.

Di fronte alle argomentazioni degli avvocati di Margherita, alle richiesta di rendiconto, alla copiosa documentazione che avvalora i sospetti della figlia di Gianni Agnelli, Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e Siegfried Maron, per mano dei loro legali, usano una triplice tattica: rifiutano sdegnati la qualificazione di ”gestori” del patrimonio dell’Avvocato, evitano risposte precise sui singoli punti, si fanno schermo della posizione di Donna Marella. Gabetti e Grande Stevens adottano una mossa preliminare per evitare contestazioni specifiche e quindi la richiesta del rendiconto: scindere la loro posizione da quella di Siegfried Maron e di donna Marella. Il primo è un cittadino svizzero e quindi non può essere sottoposto alla giurisdizione italiana. La vedova dell’Avvocato, pur essendo cittadina italiana, è residente in Svizzera e quindi anche nei suoi confronti non è competente il giudice torinese ma quello elvetico. Per di più l’accordo tombale di cui Margherita chiede la nullità è stato firmato in Svizzera sia da lei che dalla madre. Una ragione in più per dichiarare l’incompetenza del giudice italiano. Gabetti e Grande Stevens restano un passo indietro, in attesa di vedere che cosa accade in queste prime eccezioni. (...)
Consigli pericolosi

Il tema dell’incompetenza del giudice italiano viene sottolineata ancora una volta dato che «sia la signora Margherita Agnelli che la signora Marella Caracciolo sono residenti in Svizzera: nel cantone di Vaud, ad Allaman, la prima; nel cantone dei Grigioni, a Saint Moritz, la seconda. In Svizzera entrambe hanno il loro domicilio». Dunque, Donna Marella Caracciolo, residente nella Confederazione Elvetica, deve essere citata dinanzi al giudice svizzero.

A questo punto la domanda-chiave diventa la seguente: il fatto che Donna Marella abbia la residenza in Svizzera e anche il proprio domicilio a St. Moritz è sufficiente a farla considerare non più italiana ma di cittadinanza elvetica? E inoltre: la residenza e il domicilio in Svizzera sono reali o fittizi, sono dovuti a ragioni di tipo fiscale o a una effettiva e continua residenza nel Cantone dei Grigioni?

C’è un particolare, a prima vista secondario, che diventa importantissimo - e risulta sia già stato studiato dagli alti vertici del gruppo - che potrebbe fa crollare tutto il castello teorico e dimostrare che la cittadinanza e la residenza svizzera di Donna Marella potrebbero essere considerate fittizie. Si tratta di poche righe scritte il 16 maggio del 2003 da una persona precisa, rigorosa, diligente, abituata a mettere sotto la lente del microscopio ogni problema e a consultarsi con gli esperti prima di arrivare a conclusioni e soprattutto prima di metterle nero su bianco. Questo signore, affidabilissimo e molto considerato nell’ambiente del gruppo e della famiglia, di cui riscuote la piena e incondizionata fiducia, è Gianluca Ferrero, il figlio del cosiddetto ”contabile”.

Undici righe del suo famoso e prezioso memorandum con l’elenco dei beni dell’Avvocato in Italia, scritto cinque anni prima dell’atto di citazione di Margherita, quando nulla lasciava prevedere uno sviluppo giudiziario della vicenda successoria, assumono una luce nuova e importantissima. Si tratta di un paragrafo del documento-Ferrero intitolato ”Operazioni successive alla data del decesso”. Con la consueta precisione, Ferrero mette al corrente le due eredi dell’Avvocato di un paio di problemi, piccoli rispetto all’entità e alla grandezza della vicenda, ma ugualmente importanti: il personale delle varie proprietà e i cani.
Servitù tricolore

Sul primo punto Ferrero opera una divisione in tre categorie: giardinieri, marinai, camerieri. I giardinieri - scrive - vengono «trasferiti in capo alla Sig.ra Caracciolo in quanto usufruttuaria dei terreni. Essendo iscritti come agricoltori è stato consigliato dal consulente del lavoro e dall’Inps di intestarli all’utilizzatore dei terreni. Diversamente potrebbero esserci degli aggravi di costi». Come si nota, Ferrero si consulta con esperti del lavoro e con l’Istituto di previdenza e poi addiviene alla decisione più economica e meno dispendiosa per la Famiglia. Anche i marinai «in servizio sull’F100 sono stati intestati alla Sig.ra Caracciolo», scrive Ferrero. E ora viene il bello, alla luce degli aspetti riguardanti la effettiva cittadinanza, residenza, domicilio in Svizzera di Donna Marella, con riferimento a quanto sarebbe accaduto cinque anni dopo e al tentativo dei suoi legali di dimostrare che la signora Caracciolo è cittadina svizzera, e quindi ricade sotto la giurisdizione della magistratura elvetica.

Per quanto riguarda i domestici, Ferrero scrive: «Tutti i restanti domestici sono stati provvisoriamente intestati all’ing. Elkann (cioè John, NdA). Essendo la Sig.ra Caracciolo cittadina italiana residente all’estero ed in particolare in Svizzera (paese in cui l’amministrazione fiscale italiana non riconosce ai cittadini italiani lo status di residenti anche ai fini fiscali salvo prova contraria da prodursi a cura del contribuente) si è ritenuto, sentiti anche più pareri, di non sovraccaricare la sua posizione italiana con l’assunzione di circa 15 domestici rendendo così un domani, se richiesta, molto complessa la possibilità di provare la propria residenza estera».

In sostanza, dunque, Ferrero ha deciso di intestare a John, anziché a Donna Marella, i contratti di lavoro e la titolarità in carico dei quindici domestici di casa Agnelli. E questo – come si evince dal testo – nonostante i domestici siano in effetti a servizio di Donna Marella e non di John. Lo ha fatto poiché i consulenti da lui interpellati hanno consigliato di non «sovraccaricare la posizione italiana» di Donna Marella. Essendo cittadina italiana residente in Svizzera, deve mettere in atto una serie di accorgimenti tali da far credere che sia più svizzera che italiana, per fini esclusivamente fiscali. Dato che – come scrive Ferrero – «l’amministrazione fiscale italiana non riconosce ai cittadini italiani lo status di residenti anche ai fini fiscali salvo prova contraria da prodursi a cura del contribuente».

Ferrero, nel fare gli interessi di Donna Marella e nel consentirle di continuare a pagare meno tasse, versandole all’erario elvetico anziché a quello italiano, pecca di eccesso di sincerità. Se si nota infatti, egli scrive che la decisione di intestare i quindici domestici a John Elkann anziché a Donna Marella, per la quale in realtà questo personale lavorava e lavora, rischia di far venire meno al diritto, «anche ai fini fiscali», di essere riconosciuta cittadina italiana residente in Svizzera. Questo significa che di fatto Donna Marella non lo è? Che bisogno ci sarebbe di ricorrere a questo accorgimento, tirare in ballo John e adottare simili prudenze?
I cani agli italiani

Il fatto che Ferrero curi nel modo migliore gli interessi dei suoi clienti, cercando di prevedere e prevenire le conseguenze di certe decisioni (come l’intestazione dei quindici camerieri), è dimostrato da un altro episodio, riguardante i cani. Anche l’intestazione degli animali – secondo il fisco italiano – può assumere un significato rilevante per determinare se un cittadino è davvero residente all’estero. Infatti è impensabile che una persona, come Donna Marella, rinunci per molti mesi all’anno alla presenza accanto a sé dei propri, affezionatissimi cani. Se li tiene in Italia, e se sono intestati a lei, questo potrebbe significare che la signora vive più In Italia che in Svizzera. E quindi deve pagare le tasse nel suo paese e non all’estero. Il contabile Ferrero a proposito dei cani scrive nel memorandum-rendiconto: «Ugualmente è stato consigliato di intestare i vari cani di proprietà dell’Avvocato ad un residente italiano il tutto semplicemente per facilitazioni burocratiche. Attualmente i cani sono ancora in attesa di essere reinnestati».

Si noti quell’avverbio «ugualmente»: richiama la necessità di usare lo stesso accorgimento adottato per l’intestazione dei domestici. Insomma, cani e domestici possono costare cari e portare a pagare un’aliquota fiscale ben più alta e ben più gravosa. Non è dato sapere a chi siano poi stati intestati quei cani, se anch’essi a John oppure a qualcun altro. certo comunque che sono passati cinque anni e quindi il problema sarà stato ampiamente risolto per mettere Marella al riparo dagli agenti del fisco.

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COS ELKANN SPODEST AGNELLI
La questione del consolidamento della ”Dicembre” è di un’importanza vitale per il futuro assetto di comando dell’intero gruppo e anche del valore globale dell’eredità. Infatti se il valore patrimoniale racchiuso nel testamento dell’Avvocato, cioè i beni immobili elencati nelle sue ultime volontà, ammontano, con grande approssimazione, a 40-45 milioni di euro (90 miliardi di lire circa), l’operazione sulla ”Dicembre” in quel momento ha un valore di quasi 267 milioni di euro (per l’esattezza 266 milioni e 767.082,76). (...)

«Quel nome, Dicembre, non può portar bene», aveva sempre e profeticamente previsto Margherita. Considerava quel nome sbagliato e foriero di sventure, le richiamava alla mente una sorta di denominazione «sovietica», la rivoluzione d’ottobre, il grande ottobre rosso, e così via: «Quel nome non poteva portar bene e non ha portato bene».

Ideata da Gianluigi Gabetti e formalmente messa a punto da Franzo Grande Stevens, la ”Dicembre” è sempre stata la chiave del sistema di comando di Gianni Agnelli perché custodisce la quota di controllo dell’accomandita ”Giovanni Agnelli & C. Sapaz”. Alla ”Dicembre” fa capo più del 30% dell’Accomandita, e dalla ”Dicembre” si dipana la lunga filiera di società che porta anche alla Fiat. Per questo, da sempre, è un veicolo inaccessibile e, fino all’avvento di John, riservata solo a chi poteva contare almeno su questi due requisiti: portare il cognome Agnelli, far parte dei discendenti diretti e quindi della famiglia dell’Avvocato.

La prima mossa per blindare la ”Dicembre” e consegnarla a John parte da lontano e porta la data del 10 aprile 1996 allorchè l’Avvocato dona al nipote la nuda proprietà del suo 24,78%. In quella data il libro soci era così composto: Gianni Agnelli con la piena proprietà del 25,3%, mentre Margherita, Marella e John avevano la nuda proprietà del 24,87% ciascuno, con l’usufrutto nelle mani dell’Avvocato. Contemporaneamente alla donazione a favore del nipote, veniva inserita nei patti sociali una clausola, sottoscritta da tutti i soci, in cui si stabiliva che tutti i poteri di amministrazione fino ad allora in capo solo a Giovanni Agnelli, dovevano passare a John Elkann alla morte dell’Avvocato.

Prima di quella data e proprio per garantire che la ”Dicembre” restasse solo all’interno della propria famiglia, l’Avvocato decise di far entrare Marella (che fino ad allora possedeva una sola azione), Margherita e Edoardo. Voleva che i due figli entrassero a pieno titolo nell’azionariato, così come la moglie. La sua intenzione era di intestare loro la nuda proprietà e di riservarsi l’usufrutto vitalizio. Ma, all’ultimo istante, l’Avvocato venne indotto e convinto a inserire anche John Elkann nel nuovo pacchetto della ”Dicembre”. Edoardo si ribellò, ebbe un durissimo scontro col padre e alla fine rinunciò alla propria quota lasciando campo libero a John.
Controllo blindato

La decisione di far entrare anche John viene fatta risalire a Gabetti e a Grande Stevens. Questo tema riguarda una parola che a Gianni Agnelli non era mai piaciuta, poiché implicava la sua morte: successione. Ogni volta in cui gli chiedevano quando pensasse di ritirarsi, rispondeva: «Quando non sarò più di alcuna utilità alla Fiat». Oppure: «Quando non potrò più sciare».

«Ogni uomo saggio prepara la propria successione», gli hanno sempre ripetuto i suoi consiglieri. E, pur conoscendo la sua idiosincrasia per questi discorsi, a poco a poco lo hanno pazientemente convinto a preparare le cose per bene. La sua preoccupazione maggiore è sempre stata quella di cercare di mantenere intatto, in vita ma anche e soprattutto dopo la sua morte, il Gruppo e di lasciare in eredità una Fiat solidamente ancorata al capitale familiare. Era perfettamente consapevole che alla fine del secolo la Famiglia avrebbe raggiunto le duecento unità, e da questo nasceva il timore che la moltiplicazione dei membri e delle loro più diverse esigenze potesse provocare la frantumazione della proprietà arrivando a minacciare l’autonomia della gestione. Sapeva benissimo che, finchè era in vita, il suo potere, la sua moral suasion e la sua forza – oltre ai marchingegni societari a vantaggio suo e dei parenti considerati ”affidabili”- avrebbero garantito il raggiungimento di questi obiettivi.

Ma, di volta in volta, nel corso degli anni aveva preferito mettersi comunque al sicuro attraverso dei meccanismi che lo potessero garantire. Sotto questo aspetto cercava e seguiva i consigli di Gianluigi Gabetti e incaricava Franzo Grande Stevens di metterli a punto. Ma nessuno avrebbe potuto prevedere, in una certa fase, che proprio il figlio di Gianni potesse rappresentare un grosso problema, anche dal punto di vista societario.

Il 27 ottobre 1986 si svolse ad Assisi una giornata mondiale di preghiera per la pace promossa dal Papa. Era presente anche Edoardo Agnelli. Un giornalista dell’Espresso lo riconobbe, gli chiese di far conoscere le sue riflessioni e, visto che aveva voglia di parlare, lo convinse a una intervista, insieme a un altro giornalista di Panorama.
«L’erede sono io»

La doppia intervista uscì il 9 novembre col titolo: «L’erede sono io». «Se qualcuno cerca di interpretare la mia ricerca personale (cioè le sue preoccupazioni teologiche e filosofiche) come un’astensione voluta dalle responsabilità del gruppo o come incapacità ad assumere tali oneri (…) sarò costretto a difendermi, nell’interesse dell’azienda ma non unicamente di essa». Nelle frasi più oscure, mette in guardia i manager attuali dall’oltrepassare le loro funzioni. Nel suo discorso ricorre frequentemente il termine «abuso di potere». Si dice però convinto che «la mia famiglia e gli industriali hanno il senso della dimensione religiosa», che «mio padre prende le sue decisioni in funzione della fede, ma semplicemente non lo dice», e spera che rimarrà in vita il più a lungo possibile. Rivela di essere in ottimi rapporti con suo cugino Giovanni Alberto e che «se lui si sente portato a una presenza di carattere operativo in seno all’azienda, non sarò io a oppormi, anzi lo favorirei».

Edoardo non ha proferito minacce, ma quelle dichiarazioni sortiscono un effetto immediato. Margherita è convinta che Gabetti e Grande Stevens hanno colto la palla al balzo e fatto riflettere Gianni Agnelli sul futuro. Dentro la famiglia, l’uscita di Edoardo viene giudicata «irresponsabile e caratterizzata dal conflitto irrisolto col padre». (...)

A trentadue anni, Edoardo si è trovato a pagare il prezzo della regola di una famiglia che emargina chi non ha imparato a difendersi.

Nel corso dell’inverno si infittiscono riunioni dei legali a Roma e Torino cui seguono summit familiari a porte chiuse. Il risultato arriva nell’aprile 1987 con la creazione di un nuovo dispositivo di sicurezza: la vecchia ”Giovanni Agnelli SARL” viene trasformata in ”Giovanni Agnelli Sapaz”, l’Accomandita per azioni. Scopo della nuova holding, che detiene il 76% dell’IFI è quello di perfezionare il sistema di separazione fra la proprietà e la gestione. Cioè si provvede al ruolo svolto fino ad allora dall’Avvocato, che aveva sempre mediato efficacemente tra la Famiglia e il management. «L’Accomandita c’est moi», piace ripetere a Grande Stevens vantando l’invenzione di quella creatura. Si tratta di una sorta di «Consiglio della Corona», il cui potere decisionale è in mano a un direttorio di cinque membri: Gianni e Umberto Agnelli, Giovanni Nasi, Cesare Romiti, Gianluigi Gabetti. Questi ultimi due hanno sottoscritto un’azione ciascuno per poterne fare parte.

« un meccanismo ideato per tenere unite le famiglie e prevenire le rotture – dice Grande Stevens, l’ideatore di questa architettura finanziaria -. anche un modo per assicurare il controllo sulla proprietà, separando l’azionista, che ha una responsabilità limitata, dal management, responsabile dei suoi beni e preparare il momento in cui non vi sarà più un Agnelli a capo».
Giovannino escluso

«Queste parole – osserva Margherita – sono la prova che da oltre vent’anni Gabetti e Grande Stevens pensavano a come conquistare e occupare il potere, direttamente o per interposta persona, dopo la morte di mio padre. (...) Edoardo fu la prima ”cavia” di questa sorta di sperimentazione».

Come si vede Gabetti e Grande Stevens sapevano perfettamente approfittare delle circostanze. E lo stesso è avvenuto qualche anno dopo con la ”Dicembre”, anche perché Gianni Agnelli si sentiva ormai vecchio e non voleva grane. «Avvocato, – devono avergli fatto capire - la Dicembre è sempre appartenuta solo alla sua famiglia. Lei non sarebbe riuscito a tenere insieme la grande famiglia - di fratelli, sorelle e discendenti vari - se non avesse posseduto le chiavi di questo scrigno. Il suo indiscusso potere deriva dal fatto che solo lei ha e deve avere le chiavi». In questa ottica anche Giovannino, il figlio di Umberto, poteva essere considerato «un estraneo» alla famiglia di Gianni. E quindi come tale andava tenuto fuori dalla ”Dicembre”, proprio per evitare qualunque rischio.

Il ragionamento, se così è stato, era ineccepibile. E infatti all’Avvocato non è mai passato per la mente di girare un po’ di azioni della ”Dicembre”, nemmeno una, a Giovannino. Il ragionamento di Gabetti e Grande Stevens presentava però una variabile incontrollabile: Edoardo. Lasciare la ”Dicembre” nell’orbita esclusiva di Gianni e della sua famiglia comportava inevitabilmente la suddivisione delle quote tra l’Avvocato, Donna Marella, Edoardo e Margherita. «Quei due – confida Margherita - hanno fatto pesare a mio padre, per tutta la vita, il fatto che era incredibile che avesse un figlio così indegno di lui. Papà, secondo i suoi consiglieri, doveva prendere atto e rassegnarsi della presenza, dell’’inutilità” e della ”pericolosità” di quel figlio: e non poteva permettersi di sciupare tutto mettendo l’azienda nelle mani di un ”degenerato”».

 probabilmente questa la ragione per cui l’Avvocato si convince ad attribuire a John una quota, e una quota identica a quella di Margherita e di Edoardo, i due figli. Edoardo era furibondo, la considerava un’offesa gravissima, anche perché gli avevano riferito in quale modo e con quali discorsi contro di lui la decisione era maturata.
Pressioni su Gianni

Margherita cercò di rassicurare il fratello maggiore e farlo ragionare affinché lasciasse da parte l’iniziale intransigenza: «Edoardo, è tutto legale. Papà dà a John la sua quota disponibile, cioè il 25%. Può farlo. Con questa operazione non va ad intaccare nessun diritto legittimo. Può farlo, non glielo puoi impedire. E quanto più ti irrigidisci lui andrà avanti con risolutezza. Cerchiamo di ragionare tutti insieme, ti prego».

Margherita interviene anche su suo padre: «Consentimi di dirti che la tua non è stata una decisione saggia. E non parlo per me. Non mi importa la quota che hai deciso di assegnarmi, né se avrebbe potuto essere più grande dandomi una parte di quel 25% destinato a John. La cosa più grave e importante è che Edoardo abbia subìto da te questo ennesimo schiaffo, questa offesa pubblica che lo delegittima ancora di più come figlio, come se fosse un corpo estraneo da espellere dalla nostra famiglia. E poi, John è troppo giovane, ed è un solo nipote. Ti ricordo che tu ne hai altri sette e sono tutti, allo stesso modo, miei figli e tuoi nipoti. Non hai fatto questa valutazione? Non ti importa come ti giudicheranno e come si sentiranno poco considerati dal loro nonno? sbagliatissimo privilegiare uno solo dei tuoi otto nipoti, non è giusto, non è corretto, non puoi trattarli così».

Non ci fu niente da fare, l’Avvocato aveva deciso. Gabetti in silenzio annuiva. Margherita ricorda anche Grande Stevens, in quella occasione, e il suo sorriso: «Non si preoccupi, cara signora, perché tutti i suoi altri figli troveranno forme di compensazioni altrove». «Nessuno ha chiesto il suo parere», gli rispose Margherita, seccata per l’intromissione.

Ricorda anche un altro episodio: «Gabetti venne a trovarmi a Parigi». Mi disse: «Non preoccuparti. Tutto è sotto controllo, avrai di che vivere». Io non mi fidavo, volevo vederci chiaro. Andai con mio marito a trovare Grande Stevens. Gli dissi: caro avvocato, è il momento di essere messi un po’ al corrente delle gestioni, delle strutture societarie e di tutto il resto».

Margherita ricorda bene quei momenti: «Grande Stevens fece un salto così sulla sedia e ci disse con una decisione che mi fece un po’ di paura: ”Non vi passi nemmeno per la mente di gestire nulla. A questo ci pensano altri. Non tocca certo a voi. Io non ho nulla da dirvi”. Andai da mio padre e gli raccontai tutto. Ridendo mi disse: ”Ma guarda che tipi questi due: raccontano qualsiasi cosa!”. E in quella fase notai un particolare: a Yaki invece dicevano le cose che con me si rifiutavano di discutere. Forse fu quello il primo momento in cui lui cominciò ad andare contro di me».
John nuovo patriarca

Edoardo fu coerente e inflessibile: non entrò nella ”Dicembre”, rifiutò sdegnosamente di prendere la quota a lui destinata, rinunciò a un pacchetto di azioni che valeva molti miliardi di lire. Margherita «per ubbidienza filiale» firmò davanti al notaio Morone.

Gabetti e Grande Stevens erano lieti di come si stavano mettendo le cose. Il rifiuto di Edoardo - che in qualche modo era prevedibile, conoscendolo, facilitava tutto e spianava la strada a favore di John. Il ”pupillo” così facile da manovrare, nel frattempo, cominciava a capire chi stava combattendo a suo favore la battaglia che prima o poi lo avrebbe portato molto in alto. Se non ci fossero stati Gabetti e Grande Stevens a parlare e convincere il nonno, probabilmente John non sarebbe stato certo messo sulla rampa di lancio.

Era il 10 aprile 1996 quando la ”sistemazione” della Dicembre, di fatto e senza che l’Avvocato potesse prevedere gli sviluppi futuri, diventava la prima fase del passaggio dello scettro del comando non a Giovannino – come veniva fatto credere - , ma all’altro nipote, John Elkann, che aveva appena vent’anni.

Fino a quel 10 aprile 1996, Gianni Agnelli controllava il 99,9% del capitale della ”Dicembre”, che era di soli cento milioni di lire. Aveva altri cinque soci, ciascuno dei quali poteva contare su una sola ma importantissima azione da diecimila lire: Marella, Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens, sua figlia Cristina Grande Stevens in Gandini, il ”contabile” Cesare Ferrero. Nel momento in cui l’Avvocato decide il nuovo assetto, si procede a un aumento di capitale portandolo da cento milioni a venti miliardi di lire. Questo riassetto consente di sottoscrivere a favore di John una quota di cinque miliardi di lire. Gianni Agnelli a versare questa somma e a riservarsi l’usufrutto. A favore di Margherita viene sottoscritta la stessa quota, con le stesse modalità. E, infine, a favore di Marella viene sottoscritta, per la sola nuda proprietà, una quota da cinque miliardi di lire nominali, gravata da usufrutto a favore del marito. Marella è anche l’unica ad aprire il portafoglio poiché nel suo caso non è l’Avvocato, come nel caso della figlia e del nipote, a versare il denaro che garantisce l’usufrutto.

Dopo queste operazioni Gianni Agnelli di fatto controlla sempre il 99,9% ma è proprietario solo del 25,372% e ha l’usufrutto del restante 74,626%. Quest’ultima quota, per la sola nuda proprietà, è suddivisa tra Marella, Margherita e John in tre quote uguali pari al 24,87%. Marella ha qualche zero virgola in più grazie a quell’azione da diecimila lire retaggio del passato. Gabetti e Grande Stevens restano con la loro unica azione, che nel frattempo ora vale 200 milioni.

Se Edoardo non avesse rifiutato la sua quota, probabilmente i tre soci al 25% sarebbero stati Edoardo, Margherita e John Ekann, senza la presenza di Marella. Ma non c’era stato nulla da fare. La risolutezza e la contrarietà di Edoardo gli aveva così procurato un danno economico e la rottura definitiva col padre.

(3/ continua)