Gigi Moncalvo, Libero 19/08/2009, 19 agosto 2009
LIBRO MONCALVO SUGLI AGNELLI /1
TUTTI I SEGRETI DI CASA AGNELLI
Mancano tre giorni alla morte di Gianni Agnelli. Margherita arriva a Torino da Ginevra il 21 gennaio del 2003 e si precipita a casa ormai consapevole che per suo padre non ci sono più speranze. L’atmosfera a Villa Frescot è cupa e triste. Tutti sanno da parecchi mesi che il momento è arrivato. L’Avvocato è appena uscito da una crisi di apoplessia, sta malissimo. Sono le sue ultime ore di lucidità, il giorno successivo entrerà in coma. L’Eucarestia gli era stata impartita quasi un mese prima dal Vescovo di Torino insieme con l’estrema unzione. Quando Margherita vede suo padre è sconvolta dalle condizioni in cui la malattia lo ha ridotto.
l’ultima volta che lui è in grado di riconoscerla. Lei gli parla a lungo, quasi sottovoce, lui con gli occhi le risponde. Lo accarezza a lungo: «Lo so che mi vedi, papà. Non affaticarti, ti parlo io». Rimane vicina a lui finché i medici la allontanano. Lo accarezza ancora, lo abbraccia per l’ultima volta. Non vuole staccarsi dalla sua mano, lui a poco a poco non ha più la forza per stringerla. Gianni Agnelli si assopisce in preda alle medicine e sopraffatto dal male. Poco prima di mezzanotte entrerà in coma. Sta per cominciare mercoledì 22 gennaio. Mancano quarantotto ore alla morte.
Cure senza risultati
Facciamo un passo indietro. Da parecchi mesi Margherita sapeva che si era prossimi alla fine. Era affranta, non voleva rassegnarsi. Lo stesso Avvocato conosceva perfettamente la situazione e non lo nascondeva né a se stesso né agli altri. A maggio Margherita era andata a Torino, allorché suo padre era tornato da pochi giorni dagli Stati Uniti, al termine di un ennesimo, inutile periodo di cure. Da un anno le ripeteva: «Non ne posso più di questi faticosi viaggi senza risultati. Sono stanco, sempre più stanco. Non riesco a dormire la notte. Sto male continuamente, anche di giorno sono schiacciato da questa stanchezza senza fine che lascia un po’ di spazio solo a tanto dolore e non mi dà neanche una pausa di sollievo».
Margherita si era data molto da fare per capire che cosa stesse accadendo dal punto di vista dell’assistenza medica. Le continuavano a giungere voci su quello che a lei pareva, a sentire le parole del padre, evidente non venisse fatto nemmeno per tentare di alleviare le sofferenze e i dolori, per fronteggiare adeguatamente la malattia.
Quel «falso medico»
Dal suo entourage filtrano parole dure in proposito: «C’era qualche ”falso medico” che pretendeva l’osservanza di uno strano protocollo e assicurava che, grazie ad esso, il cancro se ne sarebbe andato come per incanto. Si trattava dell’amico di un medico americano che vendeva questo ”protocollo miracoloso”. Per sperimentare queste ”cure” non c’era alcun riguardo a sballottare l’Avvocato avanti e indietro più volte tra l’Italia e gli Stati Uniti infliggendogli atroci sofferenze».
Dicono che Margherita sia grata soltanto alle straordinarie attenzioni e dalla grande umanità che l’Avvocato ebbe da parte di tutto il personale dell’Istituto per la ricerca e la cura del cancro di Candiolo, realizzato dalla Fondazione piemontese nata nel 1986 e presieduta da Allegra Agnelli Caracciolo. E abbia invece parole critiche nei confronti del prof. Rosenfeld, il supervisore americano. In particolare ci sarebbe, secondo lei, una stranezza: nei check-up che venivano effettuati periodicamente tra il 1993 e il 2000, mancherebbero i risultati di un esame molto importante e legato a quel cancro alla prostata di cui l’Avvocato venne operato una prima volta nel 1983 e che poi, ricomparso nel 2002, lo avrebbe portato alla tomba. Possibile che sia così?
Nel maggio del 2002 ci fu un summit con i medici italiani, per rispondere alla richiesta dell’Avvocato: voleva sapere se fosse opportuno continuare o interrompere le cure negli Stati Uniti, vista l’assenza di risultati. Marella era della stessa opinione: a quel punto le sembrava più logico interrompere quei viaggi e quelle sofferenze, lasciando in pace Gianni in Italia. Arrivò anche il prof. Rosenfeld. In quella occasione qualcuno sentì Gabetti dire a Margherita: «Suo padre non può interrompere quelle cure. Lei deve assolutamente fare in modo che continui le cure negli Stati Uniti. Deve essere lei ad accompagnarlo. Non vede come fatica a capire quel che gli dice Donna Marella? Sua madre è prostrata e affranta, lo accompagni lei, l’Avvocato si sentirà più tranquillo».
Margherita non aveva certo bisogno dei consigli e delle esortazioni di Gabetti, e men che meno del suo permesso, per fare ciò che aveva già deciso. Ma, anche in questo caso, ci fu la sensazione che esistesse una sorta di tacita ”concessione”, quasi un ”privilegio” concesso alla figlia: consentirle di stare vicino a suo padre ma solo se si trattava di dare un aiuto morale o di questioni di assistenza medica. In questi casi Gabetti non solo consentiva e autorizzava, ma chiedeva, consigliava, spronava, talvolta con una inconsueta insistenza.
Comunque sia, Gabetti non aveva tutti i torti a insistere perché ci fosse Margherita accanto a suo padre. Donna Marella appariva debole, sfiduciata, rassegnata, invecchiata di dieci anni in poche settimane, come le era capitato dopo la morte di Edoardo. Margherita comprese perfettamente e, dato che i medici decisero ancora per gli Stati Uniti, si dichiarò pronta a partire e ad assistere suo padre. E consigliò caldamente alla mamma di restare a Torino per non affaticarsi come le era accaduto le altre volte. Marella non volle sentire ragioni, si mise in testa che volevano escluderla, espellerla, accantonarla, come se fosse d’intralcio. E forse molti malintesi, molte incomprensioni, molti dissapori, sorsero in quella occasione.
Marella messa da parte
Comunque, non c’era tempo per badare a questo: l’Avvocato stava veramente male, aveva bisogno di cure e anche donna Marella stava entrando in una fase delicatissima e difficile poiché faticava ad accettare che suo marito stava morendo, che l’uomo con cui aveva diviso la sua vita non era invincibile e stava per lasciarla questa volta davvero per sempre. Anche le condizioni di Marella cominciavano quindi a dare qualche preoccupazione. Intorno a lei venne creata una sorta di campana di vetro per non farle comprendere la gravità della situazione, non la si tenne più aggiornata sull’evoluzione quotidiana della malattia, né se le cure avevano effetto o no. Parlare di questo con lei era diventato tabù. Ma nessuno riuscì a convincerla a restare a casa, non volle sentire ragioni e decise di partire.
Gli amici di Margherita ricordano che, quella che all’inizio era sembrata una generosa concessione di Gabetti, cioè consentire alla figlia di stare finalmente vicina e sola col padre, si rivelò sbagliata. (...)
In quel maggio del 2002, Margherita si convinse che per suo padre non c’è più niente da fare, gli restavano pochi mesi di vita. Non era solo la consapevolezza o la rassegnazione di una figlia: tutti erano convinti di questa ineluttabilità. Da quel momento sorse l’esigenza di tutelare l’immagine pubblica dell’Avvocato. Non bisognava fargli incontrare estranei che lo vedessero in quello stato, occorreva tenerlo al riparo da manifestazioni o vicende in cui gli altri potessero rendersi conto di come le cure e la malattia avevano devastato il suo fisico e il suo volto. Passa la primavera, passa l’estate, tutto è tranquillo.
Ma Margherita si accorge che qualcosa non va, si rende conto che stanno accadendo cose sgradevoli intorno a suo padre. Il culmine viene toccato a settembre in occasione della visita del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e della signora Franca, al Lingotto. Quel giorno l’Avvocato non stava bene. Nonostante questo venne organizzato un breve incontro privato tra lui e il Capo dello Stato lontano da occhi indiscreti. Ma qualcuno insistette per scattare un paio di foto ufficiali. Margherita non ne fu contenta poiché in quel modo veniva reso pubblico lo stato di salute di suo padre: tutti avrebbero potuto avere la conferma di quanto si diceva da tempo, e avrebbero potuto vedere, in maniera molto dolorosa e toccante, in che modo la malattia aveva trasformato il volto, il fisico il portamento di quell’uomo ormai vicino al capolinea.
Quelle foto con Ciampi
In quelle foto il volto dell’Avvocato appariva gonfio, lo sguardo non era più luminoso come quello cui si era abituati, addirittura la cravatta non era perfettamente allacciata e il colletto sbottonato evidentemente per evitargli ulteriori disagi. Era la prima volta, da parecchi mesi, che l’opinione pubblica poteva vedere l’Avvocato in preda alla malattia e capire che era tutto vero ciò che all’esterno di sussurrava.
Già un paio di volte era circolata la notizia, rivelatasi infondata, della sua morte. Si trattava evidentemente di ”sciacalli” che lo facevano con lo scopo di giocare sull’oscillazione dei titoli del Gruppo. La Borsa aveva reagito immediatamente a quelle voci, con oscillazioni dei titoli che si erano parzialmente stabilizzate dopo le smentite. Comunque, quei rumori avevano delineato una situazione vicina alla realtà. E le foto di quel giorno con Ciampi al Lingotto lo provavano inequivocabilmente.
Edoardo e Giovannino
Sarebbe stato sicuramente meglio se quelle foto non fossero state scattate, se fosse stato impedito ai fotografi di entrare, se tutto ciò fosse stato evitato, lasciando invece il ricordo gradevole e indimenticabile della forma fisica, dell’esuberanza, del fascino dell’Avvocato anche in età inoltrata. Quelle fotografie cancellavano in un attimo tutto il passato e consegnavano alla storia una realtà che non lasciava spazi all’immaginazione. Margherita era molto contrariata che si fosse consentito di scattare quelle foto e diffonderle e nessuno l’avesse impedito.
Eccoci al gennaio 2003. Margherita a dicembre era andata a New York a trovare Lapo e intanto aveva accompagnato ancora una volta suo padre che, nonostante le sue condizioni, doveva anche occuparsi di varie questioni con Gabetti al Rockefeller Center. L’avvocato si sentì male ancora una volta, era la crisi finale. Ci fu una specie di sogno premonitore dopo quella crisi. Margherita ricorda di aver sognato suo fratello Edoardo. Era a casa sua, lo vide mentre le parlava al cellulare e le dava brutte notizie su papà. Margherita ricorda un altro sogno premonitore, cinque giorni prima della morte dello stesso Edoardo. Era il 10 novembre. Nel sogno appare Giovannino. Va a trovare Margherita per dirle che Edoardo sta per raggiungerlo, sta per morire. La accompagna alla cappella del cimitero di Villar Perosa, si ferma davanti alla propria tomba, le mostra che lì vicino a lui sta per incontrare Edoardo. «Io pensavo che Giovannino mi volesse parlare di sua figlia. Invece non era così: mi aveva portato in quella stessa cappella dove pochi giorni dopo avrei visto tumulare la bara di Edoardo», ricorda Margherita.
Dopo due notti terribili, venerdì 24 gennaio, Gianni Agnelli muore. Sono le otto e mezzo del mattino. A marzo avrebbe compiuto 83 anni. «Era un giorno strano - racconta Margherita -, nonostante fosse inverno il cielo era di un colore blu bellissimo, inondato di sole. Nel momento in cui ho visto mio padre morire ho provato un dolore lancinante, prolungato, profondo. Ma poco dopo papà mi ha anche regalato una pace e una serenità strana, come se mi si fossero allargati i polmoni, come se fossi sollevata che avesse smesso finalmente di soffrire, di provare dolore, di essere preda di quelle forme di perenne stanchezza».
Strane coincidenze
Non era un giorno qualsiasi quel 24 gennaio. Sembra un segno del destino: era il giorno della riunione dell’Accomandita. L’Avvocato aveva scelto di andarsene proprio il giorno in cui A Torino c’era tutta la famiglia, arrivavano da tutto il mondo per la riunione annuale della ”Giovanni Agnelli & C.”.
La riunione dell’Accomandita aveva due date alternative, o maggio o gennaio, quell’anno era stato stabilito proprio il 24. All’Avvocato piaceva quell’incontro, sapeva che anche Margherita amava le grandi riunioni di famiglia come quella. Ogni volta la incaricava di organizzare il pranzo e la grande festa. In genere c’erano almeno settanta, cento, al massimo centoventi parenti. Un anno il pranzo si svolse al Jockey Club di Villar Perosa, un anno al Circolo della Caccia, un altro in casa a Torino. C’erano tanti tavoli diversi, si tirava a sorte come assortire gli invitati, a parte i famigliari. Gabetti non veniva ammesso, poteva entrare solo il giorno dopo e si capiva benissimo che gli pesava. Erano feste e pranzi che riuscivano ad assortire generazioni diverse: quella dell’Avvocato e delle sue sorelle, quella di Margherita e Edoardo, quella dei più giovani. Era un ritrovarsi e mescolarsi che rinsaldava i vincoli. Questi pranzi e queste feste Margherita le organizzava sotto la supervisione di suo padre. «Mi fa rabbia che sia stato buttato via tutto, a cominciare dal buttare via me. Forse non sono più un membro della Famiglia solo perché non ho più azioni e sono fuori dal gioco? E il cognome che porto non significa più nulla?», ha detto qualche tempo dopo Margherita a una delle sue zie lamentandosi del modo in cui è stata isolata e cancellata.
«Appena dopo la morte di papà – ricorda Margherita - ecco cominciare la ”confabulatio” dei Gabetti. Sembravano essere loro i custodi della famiglia, coloro che dovevano decidere tutto. Hanno perfino quasi tentato di impedire che papà avesse un funerale religioso. Gabetti ripeteva: ”Non era, non è mai stato uomo di chiesa!”. Per fortuna è arrivato il Cardinale Paletto e ha preso in mano la situazione e ha troncato ogni discussione: ”Le cose si fanno così e così”. Ha ascoltato solo il suo buon senso di cristiano, sordo a ogni intervento esterno o a qualsiasi tentativo di intromissione non autorizzata, ha messo i paletti giusti nel modo più giusto e convincente. Nessuno ha fiatato».
La famiglia a pregare
La salma dell’Avvocato la prima sera restò in casa, a Villa Frescot. L’indomani fu portata al Lingotto. In un primo tempo il Vescovo aveva ritenuto quell’ambiente troppo spoglio ma alla fine aveva accettato la soluzione per consentire ai cittadini torinesi di salutarlo un’ultima volta. «Mi raccomando: che abbia una sistemazione decorosa, come se la camera ardente fosse a casa. Mi raccomando anche che non venga abbandonato in mezzo a quel grande spazio vuoto». Le sacrosante istruzioni del porporato vennero eseguite alla lettera, anche perché erano sensate. Margherita portò nella camera ardente un’icona da lei dipinta e che suo padre teneva sopra il suo letto. Per un certo periodo Edoardo l’aveva presa e portata a Villa Sole, perché in quel quadro ”c’è uno sfavillìo di religioni”, aveva detto. Dopo la morte di Edoardo, papà l’aveva voluta di nuovo e rimessa al suo posto».
Nella camera ardente in cui era stata trasformata la sommità del Lingotto, è cominciato ad arrivare un numero impressionante e inatteso di persone. Quella partecipazione era impressionante. Migliaia e migliaia di persone restavano in coda ore ed ore per poter salutare un’ultima volta l’Avvocato. Non c’era modo di far sfilare tutti, non c’era modo di impedirne l’accesso. Margherita e i parenti stretti decisero allora di lasciarlo lì un giorno in più, e di chiudere le porte solo durante la notte. «Tuttavia non potevo sopportare l’idea che mio padre rimanesse lassù al buio, solo con le guardie accanto, mi sembrava fuori dal mondo», disse Margherita. Ne parlò con Cinzia Campello, la sua migliore amica. Da una parte c’era la tradizione secondo cui si sta col defunto il tempo necessario, dall’altra c’era il vescovo che insisteva: «Oltre un certo limite la salma non può restare lì, anche se c’è tutta quella folla». D’altra parte non si poteva mandar via chi era rimasto per ore in coda al freddo. La decisione di lasciarlo lì per altre ventiquattrore era giusta.
Cinzia propose: «Chiamiamo le suore a tenergli compagnia e a recitare il rosario per lui». «Per carità, non era nelle sue abitudini», rispose Margherita.
«Si arrivò all’idea di essere tutti noi della famiglia a tenergli compagnia. Ci dividemmo in ”turni di guardia». Non ci furono dubbi che dalle due alle quattro toccasse a Lapo e Edoardo Teodorani. «Così tengono compagnia a papà e lo fanno divertire parlandogli ininterrottamente delle loro conquiste…». «Abbiamo fatto bene a fare così, tutti volevano stare con papà, tutti lo volevano salutare e parlargli un’ultima volta. Quel modo inaspettato fu la cosa migliore».
I funerali si svolsero due giorni dopo. L’Avvocato venne sepolto a Villar Perosa domenica 26. Il giorno dopo Margherita tornò a Ginevra e il martedì andò a Roma in Senato per la commemorazione.
(1/ continua)