Martino Cervo, Libero 27/8/2009, 27 agosto 2009
Per un ferrarese, sulla mediocrità vale la lezione di Leopardi: è «non solo un pregio, ma una legge»
Per un ferrarese, sulla mediocrità vale la lezione di Leopardi: è «non solo un pregio, ma una legge». Dario Franceschini, 51 anni il 19 ottobre, ha incarnato con piglio discreto e convinzione la strategia d’assalto di un eterno numero due che va avanti in forza di questa natura. Pallido e tenace, composto e immarcescibile, ordinato e vagamente tignoso. La grande occasione l’ha colta così, nel febbraio 2009, quando è diventato leader del Pd dopo il tracollo di Walter Veltroni di fronte al trionfo di Ugo Cappellacci, figlio dell’ex commercialista di Silvio Berlusconi, alle Regionali sarde. Aitante sbandieratore fin dai tempi del liceo scientifico, figlio del partigiano bianco e anticomunista Giorgio al cui fianco ha giurato sulla Costituzione, Franceschini è un buon borghese: frequenta Legge nella pregiata Università della sua città, si laurea con una tesi in Storia delle Dottrine politiche sul movimento cattolico, esercita da civilista nello studio – appunto – Franceschini e Ferroni, splendida sede in pieno centro cittadino, a Via Bersaglieri del Po 31. Fin da ragazzo ha la sinistra dc nel sangue: si iscrive al partito a 18 anni, padre e ispiratore il mitico Benigno Zaccagnini detto Zac. «C’era grande entusiasmo», disse ricordando il momento, «Zaccagnini ispirava rinnovamento». Il resto è quello che un suo ex sodale democristiano chiama il «classico cursus honorum di uno scudocrociato». «Era leader della dc giovanile con Renzo Lusetti: consigliere comunale, assessore alla cultura, capogruppo». Il grande salto lo tenta con una lista civica nella sua città: si chiamava, strana profezia, Ferrara Democratica. Nel ”94 sfida lo storico sindacone Soffritti, sfiorando il ballottaggio in una specie di Unione fatta dai Cristiano Sociali con Verdi e altri. (Era, quello dei Cristiano sociali, il progetto in opposizione al tentativo centrista del Ppi di Castagnetti.) C’era dentro pure Alessandro Bratti, suo compagno di scuola al liceo ”Roiti”. Dario fondava associazioni e riviste di giovani diccì. Eskimo, barbetta rossa, ciuffo come adesso e Il Popolo in tasca. Un Partito democratico ambulante, ha sintetizzato Mattia Feltri sulla Stampa. L’altro, il Bratti, dava fuoco alla sua copia del quotidiano della Dc. Quando spunta l’Ulivo Franceschini ritrova una casa. numero due del Ppi lì confluito. Da Zac, intanto, era passato a De Mita, suo padrino politico per anni. il leader di Nusco a far sì che Dario prenda in mano un ruolo importante, nel collegio sindacale dell’Eni ai tempi della privatizzazione. Poi però, quando, da numero due del Pd, vedrà Ciriaco scalzato dalla veltronianissima Pina Picierno nelle candidature, non si segnalano proteste. Gli ultimi anni ”90 sono di governo, col solito passo indietro rispetto alla primissima linea: sottosegretario alla presidenza del Consiglio di D’Alema, stesso ruolo con Giuliano Amato. Poi la Margherita, dalla quale viene sfogliato come numero due del neonato Pd. La lottizzazione a volte premia chi sa attendere. «Qui a Ferrara mica lo prendono per il segretario del Pd», dice un concittadino. Ha sempre fatto la spola tra la città e Roma, come rivelano quel labbro superiore sempre un po’ troppo attaccato e che ogni tanto si appiccica sopra i denti, quelle ”l” inconfondibili, quella cadenza un po’ fastidiosa. O quello studio legale di cui è stato socio per anni, fiduciario di Unipol. Significa, in pratica, che la compagnia assicuratrice oggetto dei sogni dei leader ds si appoggia a quegli avvocati per le proprie cause, e viene pagata a tariffe fisse in ragione del valore del contenzioso. Da qualche mese, lo studio ha cambiato nome: non più Franceschini-Ferroni ma Ferroni e associati: «Franceschini non ha più rapporti formali con lo studio», spiega il titolare a Libero, quotidiano che qualche mese fa aveva rilevato la ”commistione”. Ora Franceschini sta a Roma, dove vive con la moglie Silvia, tale dall’86: ha due figlie, un cane e non più tanto tempo per scrivere libri. Ne ha fatti tre: uno sugli sviluppi della tesi, poi due romanzi, 2006 e 2007, ”La follia improvvisa di Ignazio Rando” e ”Nelle vene quell’acqua d’argento”, entrambi Bompiani. Il secondo, tradotto in francese dalla Gallimard, ha pure vinto un premio Oltralpe. Ora invidia Veltroni che ha tempo di sfornare ”Noi” (Rizzoli), mentre lui, Dario, ha un terzo romanzo che langue per via di quella cosa del Pd. E i maligni a dire che tanto, da ottobre, una prateria di ore tranquille attende il segretario. Un suo rivale ai tempi dell’università, sempre sul fronte cattolico ma meno di sinistra, dice che di Franceschini si ricorda uno «grigio, che non arriva al chilo». Che, anche guardando agli anni successivi «fai fatica perfino a parlarne male per mancanza di argomenti. Mia moglie a Ferrara ormai lo evitava perché poteva esserci pure la guerra ma ti parlava sempre di quello lì che si era candidato a Grosseto, o non so dove. Viveva per il partito, allevato nella stia dc. Mi ricordo che portava le figlie (Caterina e Maria Elena, ndr) dalle suore, alla San Vincenzo di Ferrara, qualche settimana prima delle elezioni. Poi basta». Dario Franceschini, deputato dalla XIV legislatura, pare non si scaldi perché non ostenta mai nulla, né della vita né degli affari, ma in realtà, neanche troppo raramente, fa scaldare gli animi. Per dire, è riuscito a mettere d’accordo Francesco Cossiga e Marco Pannella. «Dario è uno dei piccoli imborglioncelli dei gruppi giovanili della Democrazia cristiana», ha picconato l’altroieri in radio l’ex capo di Stato. «Imbroglioni! Imbroglioni! Vi fate le regole da soli e non le rispettate», gli gridò in faccia il vecchio Giacinto detto Marco a un recente ”Ballarò”, poco dopo aver tuonato: «Hai la faccia come il culo! Sei un de-mo-cra-ti-chi-chi-chi-chi-chi-no». Gli otto mesi tra investitura e congressone di ottobre sono, al momento, un perfetto specchio dell’andamento del Paese: un tentativo di uscire dalla crisi. Dario ci arriva con la sua aurea mediocrità: in fondo, forse, ha conservato lo spirito del numero due anche da capo. Pronto ad approfittarne, ancora, e presentandosi come il nuovo.