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 2009  agosto 27 Giovedì calendario

L’AMERICA ACCECATA DA TARANTINO


Daniel Mendelsohn ha raggiunto il grande successo internazionale con Gli Scomparsi, ma negli Stati Uniti è noto soprattutto come critico letterario, cinematografico e di opera lirica. un recensore originale, temutissimo e imprescindibile, ed è una delle firme più prestigiose della New York Review of Books. La sua formazione è classica, la cultura profonda e basata su una grande libertà intellettuale, che gli consente di utilizzare costantemente l´ironia, e di mescolare con eleganza i riferimenti nobili alle citazioni popolari. Lo scorso anno ha pubblicato una raccolta dei suoi saggi intitolato How beautiful it is and how easily can be broken, nel quale parla con la stessa passione e competenza di Henry James e Almodovar, Jeffrey Eugenides ed il film Troy. Il libro esce in Italia da Neri Pozza (e sarà presentato dall´autore a Mantova il 9 settembre) con traduzione di Luca Briasco (pagg. 266, euro 22) con un titolo semplificato in Bellezza e fragilità. « un riferimento a una nota di Tennessee Williams a proposito di Zoo di vetro – spiega Mendelsohn ”. L´ho scelto perché rappresenta le caratteristiche dell´arte che trovo fondamentali e struggenti. Si tratta di ciò che mi affascina e mi fa andare avanti, ma anche di quello che mi spaventa. L´idea fallace di qualcosa che si possa rompere è anche a mio avviso la metafora della cultura di oggi, e forse di sempre. Ogni giorno ci confrontiamo con un realtà tragica, abbiamo paura del dolore e la nostra fragilità ci porta a scelte che sfociano nel melodramma e nel sentimentalismo. E questo è il segno della crisi».
Esiste una differenza di qualità tra l´arte nobile e quella popolare?
«Provengo da studi classici, ma proprio per questo credo che non ci sia differenza: l´Iliade e l´Odissea erano cultura popolare. Si potrebbe dire lo stesso di Shakespeare, dell´opera, e, ai nostri giorni, del cinema. il modernismo che ha creato questa differenza».
Ritiene che l´approccio intellettuale sia un limite o un arricchimento per l´arte?
«Il talento e la cultura sono due cose diverse e l´intellettualismo è un rischio. Mi vengono in mente esempi differenti: Truman Capote aveva una cultura molto modesta e diceva di voler scrivere il grande romanzo proustiano conoscendo a malapena Proust. Henry James invece era autenticamente colto. Detto questo mi chiedo cosa sia il futuro della cultura se siamo nella mani di Quentin Tarantino, che certamente ha talento, ma è un idiot savant che non sa nulla della storia né dell´arte, e scherza in maniera demenziale sull´Olocausto come se non fosse mai esistito. Credo sia rischioso che una persona così senza cultura rivesta una grande importanza culturale».
Lei lo stronca per il senso di vuoto e passività.
«Si ha l´impressione di non trovarsi alla presenza di un creatore ma di uno spettatore, incapace di parlare della vita reale perché tutto ciò che conosce proviene da un altro film».
Chi sono oggi i grandi del cinema?
«Io amo Almodovar, Woody Allen, Greenaway, Michalkov, Anghelopulos. E P.T. Anderson, soprattutto per Boogie Nights».
Lei ha scritto molte pagine su Troy ed Alexander.
«Ritengo che l´approccio revisionista di entrambi siano rivelatori delle preoccupazioni americane sulla guerra nel periodo della débacle irachena».
Non le sembra di leggere oltre le intenzioni degli autori di due film semplicemente brutti?
«Certo che sono brutti, ma è questo l´elemento interessante della cultura popolare. Sono paragonabili a dei palazzi orribili che segnano un´epoca. Penso anche a 300, orrendo, ma interessante da un punto di vista critico e storico».
Chi sono invece oggi i grandi della letteratura?
«Philip Roth, a mio avviso il più grande del dopoguerra. Forse persino più importante di Bellow. Capisco che anche Cormac McCarthy è grande, ma non è il mio genere. Ammiro Michael Chabon, Jonathan Lethem, e Jonathan Franzen per Le correzioni, meno per gli altri libri. Non sopporto invece gli scrittori di Brooklyn che raccontano la loro infelicità e quanto è incasinato lo squallore della loro vita. Ritengo che oggi si trovi scrittura eccellente in televisione: penso ai grandi personaggi e alle grandi storie dei Soprano, Six feet under, Madmen. Gli autori sono i nostri Dickens».
Lei sostiene che Philip Roth non sia più identificabile con il suo alter ego Nathan Zuckerman ma con E.I. Lonoff dello Scrittore Fantasma.
«Roth ha investito sia esistenzialmente che artisticamente molto sulla sessualità, e, avvicinandosi agli ottanta anni, rischia di diventare arrabbiato e sentimentale. Rimane un grandissimo scrittore, ma mi ricorda mio padre: un ebreo che si lamenta di come erano meglio le cose dieci anni fa e finisce per essere nostalgico. Lo preferivo quando era un erotizzatore dell´intelligenza, come Woody Allen, che gli è molto simile».
Lei scrive che l´arte dà significato alla vita e che fa lo stesso la morte, in maniera diversa.
«La morte è il limite che dà senso alla vita. Gli dèi greci sono definiti come immortali, non come moralmente superiori. Alla fine è proprio questo che li rende ridicoli e incredibili. L´arte interpreta il mondo, e vuole credere che possa avere un senso. Bisogna poi ricordare sempre che la radice del termine "Apollumi", distruggere, è la stessa di Apollo, dio dell´arte».
Lei condivide l´antipatia che provava Henry James per Oscar Wilde?
«Si, nei confronti di Wilde ho una relazione tormentata: provo pietà ma anche irritazione. Era un uomo di talento autodistruttivo che divenne vittima della concezione romantica che aveva di se stesso come artista. In questo gli è stato simile un´altra persona di talento come Capote. Sono entrambi drammaturgicamente interessanti, come due eroi tragici greci».
Qual è il suo parere sull´aforisma che cita di Chuck Close: "sono i dilettanti a cercare l´ispirazione; tutti gli altri si rimboccano le mani e si mettono al lavoro"?
«Sono assolutamente d´accordo, credo nel lavoro duro. Quella dell´ispirazione è un altro mito romantico. Colui che fa la differenza, e produce arte e cultura, lavora costantemente. Balanchine e Shakespeare si alzavano e andavano ogni mattina a lavorare. La grandezza arriva per chiunque, eventualmente, dopo».