Gianluca Morozzi, Wired di settembre 2009, 27 agosto 2009
SMART DRUG
Io non so chi sta scrivendo questo pezzo. Siete avvisati. Cioè: in teoria lo sto scrivendo io, Gianluca Morozzi, scrittore bolognese di anni: trentotto, altezza: un metro e ottantatré, peso: settantotto chili, capelli in testa: pochi, romanzi pubblicati: dodici, ma è un Gianluca Morozzi nuovo e diverso, forse, che sta scrivendo l’articolo in questione. Perché io ho accettato di sottopormi a un delicato esperimento. Sperimentare su me stesso gli effetti del (rullano i tamburi) misterioso (rullano i tamburi) composto (come sopra) chiamato (pausa drammatica) Ritalin. E documentare gli effetti di questo misterioso Ritalin sul mio cervello. Che è quell’organo che, in quanto scrittore, mi dà di che vivere. Che, quindi, sarebbe il caso di non rovinare troppo. Tuttavia, non è mai successo che io mi sia tirato indietro di fronte al rischio.
E allora vediamo di provarlo, questo Ritalin.
Cosa mi succederà, assumendo il Ritalin? Diventerò superintelligente? Diventerò un mutante?
Perché, bisogna dirlo, io sono stato bombardato di messaggi molto chiari fin da piccolo. Che bambino intelligente!, mi dicevano le maestre d’asilo quando spiegavo il Big Bang alla mia classe di piccoli subumani, in una pioggia di sbadigli e palle di carta. Mai avuto un allievo così intelligente!, esultava il mio maestro delle elementari dopo aver letto in tutte le classi il mio tema sulla droga. Uno così intelligente farà di certo lo scienziato!, blaterava la professoressa d’italiano delle medie esibendo come prova il mio compito in classe sul futurismo.
Solo (e scusate se mi dilungo con questa noiosa premessa, ma è per illustrarvi meglio le condizioni dell’esperimento), la mia evoluzione intellettiva non aveva seguito un percorso lineare. Dopo quest’esplosione di genio, dopo tredici anni di sinapsi che si collegavano a sorprendente velocità in un festoso crepitare di neuroni, ecco, all’inizio dell’adolescenza mi ero spento. Ero diventato stupido. Davvero. Avevo passato cinque anni di liceo scientifi co in una nebbia cerebrale desolante, senza capire niente di niente. Sul serio. Ero andato in cortocircuito, non supportato – bisogna dirlo – dalla brillante conversazione dei miei illuminati compagni di classe, conversazione che fondamentalmente s’incentrava sul mettere lo zucchero nel serbatoio della prof di latino e su come invitare fuori la bella e sfuggente Elettra Tugnoli di quinta B, né tantomeno supportato dal fervido intelletto delle mie prime fidanzatine, la cui circonferenza toracica era in genere due volte superiore al quoziente intellettivo.
Per fortuna, a metà degli anni Novanta le sinapsi bruciate si erano poco alla volta autoriparate. Oggi, raggiunti i trentotto anni di età e i nove anni di carriera da scrittore, posso ricollegarmi alla premessa e dire che grazie al mio cervello – l’organo in cui nascono i romanzi che mi danno da vivere – io mi mantengo. Per cui, ecco, ci tengo un po’, al mio cervello. Se Beckham ha fatto assicurare i suoi piedi, che gli danno da vivere, se un noto tenore ha fatto assicurare le sue corde vocali, che gli danno da vivere, io dovrei assicurare il mio cervello. Solo, mi sembra un po’ pretenzioso. Ho una naturale forma di umiltà.
Cominciamo a irrorare il cervello in questione con il principio attivo del Ritalin, dunque. E vediamo cosa ne viene fuori.
PRIMO GIORNO
NESSUN RISULTATO. LA GATTA NON MI CAPISCE
Oggi, primo giorno di sperimentazione. Ho assunto il mio primo Ritalin di mattina, dopo colazione, con un bicchiere d’acqua. E ho atteso gli effetti. Per non tenervi sulla corda: non ce ne sono stati. Non è successo niente. Avrei voluto acquisire all’istante un’intelligenza supernaturale per poter capire la mia gatta, un sinuoso felino nero di due anni e mezzo, ma nulla di tutto ciò è accaduto. Sarebbe stato molto utile, per me, poterle parlare. Poterle dire, nel momento in cui mi camminava in testa alle sei e un quarto del mattino, nel momento in cui mi svegliava alle sei e un quarto del mattino a testate e piccole unghiate, nel momento in cui mi trascinavo sbadigliando giù dal letto per accontentare la piccola viziata, aprivo la mensola, riempivo la ciotola rossa di crocchette e la ciotola blu di bocconcini di carne gelatinosa, nel momento in cui la gattaccia si accostava alle crocchette, le annusava, si allontanava sdegnata, si accostava alla carne gelatinosa, la annusava, si scostava sdegnata, si metteva seduta tenendosi ritta con le zampe anteriori e mi guardava con gli occhioni sbarrati e l’aria interrogativa – tutto questo, ribadisco, alle sei e un quarto del mattino – come a dire Cos’è ”sta sbobba?, secondo te ti sveglio all’alba per farmi dare questa sozzeria?, dov’è il tonno al naturale di cui, lo avrai capito, forse, in sei mesi di convivenza, sono ghiotta?
Ecco.
Se il Ritalin avesse acceso quella parte inutilizzata del mio cervello utile a comunicare con gli animali, io avrei potuto dirle Micina mia, ascolta, so che hai un cervello molto piccolo e una memoria molto corta, ma ascolta, ti ricordi dov’eri, tu, sei mesi fa?, se non te lo ricordi, ecco, te lo dico io, eri la gatta di un tossicodipendente che frequentava una comunità di recupero, ti ricordi?, eri la gatta di un tizio magrissimo e dal colorito giallastro che ti dava da mangiare al massimo briciole di pane e se ti lamentavi ti prendeva a calci, piccolina, ti ricordi quel giorno di ottobre in cui sei entrata in questa casa nel trasportino, che eri magra come un’acciuga?, ti ricordi che la prima cosa che hai fatto appena uscita dal trasportino è stata rifugiarti sotto il letto perché nessuno ti picchiasse, che ci abbiamo messo due giorni a convincerti a stare sul cuscino che avevamo collocato sotto il letto?, ecco, in quei primi giorni, ricordi?, avevi pochissime esigenze, piccolina, ti bastava non essere presa a calci, ti bastava essere nutrita di tanto in tanto con una, massimo due crocchette, ti ricordi?, e poi, poco a poco, quando hai visto che nessuno ti prendeva a calci, quando – mettendo il muso fuori dal letto, se nessuno era dentro la stanza – ti ritrovavi davanti tre ciotole riempite rispettivamente di acqua, tonno e crocchette, quando hai capito di poter usufruire di una confortevole lettiera piena di sabbia inodore, quando hai capito di poter usare quel giochino con l’alberello per affilare le unghie e la pallina penzolante e la pallina a molla, quando hai capito che quella casetta in cui potevi giocare e infilarti nei buchi e arrampicarti era tua, quando hai capito che a ogni flebile miagolio i tuoi padroni correvano a riempirti la ciotola di ottimo cibo, ecco, hai preso un po’ ad abusare di questa condizione e ora sei grassa come una porca e viziata come Paris Hilton, piccolina, secondo me, se non vuoi passare una settimana a dare la caccia alle lucertole in giardino, dovresti mangiare quel che ti ho messo nella ciotola e lasciarmi dormire ancora un po’, che ne dici.
Questo avrei detto, se il Ritalin avesse avuto sorprendenti effetti già dal primo giorno.
SECONDO GIORNO
MI INTERVISTANO ALLA RAI, RISCHIO DI DARE I NUMERI
Il secondo giorno di Ritalin forse non era accaduto niente, o forse sì. Non lo so. L’interpretazione è ambigua. Il secondo giorno, come il primo, avevo assunto il Ritalin di prima mattina e avevo atteso che qualcosa accadesse. Nulla era successo. In apparenza.
La sera di quel secondo giorno avevo un impegno televisivo: un quarto d’ora in diretta su Rainews per parlare del mio nuovo romanzo, collegato con lo studio di Roma dalla sede Rai di Bologna, in un orario collocabile intorno alle ventidue e trenta. Alle ventidue e quindici avevo parcheggiato in uno spiazzo di fronte alle torri della fiera, mi ero incamminato verso la sede Rai della mia città, superato un furgoncino di piadine – destinato, immagino, a prostitute e clienti delle prostitute, principali frequentatori della zona fiera dopo il calar della sera ”, dato il mio nome e un documento alla guardiola, entrato alla sede Rai. Completamente deserta. Spettrale. Tanto da farmi vagheggiare – nei cinque minuti d’attesa – l’ipotesi di un romanzo horror ambientato in quel luogo spettrale. Al quinto minuto, il romanzo horror era già stato declassato a racconto breve. Quando il tecnicomicrofonista mi aveva convocato, l’idea era già finita nell’archivio mentale chiamato Cose che non farò mai.
Il tecnico microfonista, un uomo dall’età apparente di quattrocento anni, mi aveva fatto sedere su uno sgabello al centro di un enorme, inquietante spazio vuoto. Una specie di magazzino abbandonato, dall’aspetto. Di fronte allo sgabello c’era uno schermo televisivo sintonizzato su Rainews. Il pluricentenario mi aveva appuntato il microfono al maglione e poi era sparito dentro un’invisibile cabina di regia, lasciandomi solo in quello spazio vuoto, solitario e freddo. Sullo schermo, il conduttore – colui che mi avrebbe intervistato a distanza, di lì a poco – stava parlando con lo scrittore Erri De Luca. Abbandonato in quel luogo freddo, avevo atteso il mio turno.
E un paio di cose erano capitate. Man mano che attendevo, immobile sullo sgabello, senza osare muovermi per paura di staccare per sbaglio il cavo del microfono, avevo sentito una sensazione sgradevole di secchezza alla bocca. Quella che si prova dopo aver corso sotto il sole a picco in una giornata d’estate, quella che si prova dopo due ore di calcio su un campetto sabbioso, quella che ti manda a cercare disperatamente una fontanella zampillante acqua fresca. E, di lì a poco, avrei dovuto parlare in diretta televisiva. Dopo dieci minuti passati a cercare di produrre saliva per bagnarmi la bocca, mi ero girato verso l’invisibile cabina di regia per chiedere una bottiglia d’acqua al pluricentenario. Ma proprio in quel momento, una voce educata e chiarissima aveva detto Buonasera, Gianluca Morozzi! Il conduttore, sullo schermo televisivo, stava parlando con me.
Buonasera, avevo biascicato. Ed era cominciata un’inquietante pantomima. Perché la voce del conduttore, chiarissima in studio, stava riassumendo la trama del mio ultimo libro. Mentre la bocca del conduttore, sullo schermo di fronte a me, stava dicendo le stesse parole ma con qualche secondo di ritardo. Cosa stava accadendo? Audio e video erano fuori sincrono per un errore del quattrocentenario, forse addormentato nella cabina di regia, o il Ritalin aveva scelto proprio le ventidue e quarantacinque per iniziare a produrre effetti di dislocazione temporale? Ebbene, io sono una personcina educata che non dà mai fastidio. Mai e poi mai mi sarei messo a urlare Aiuto, aiuto, sento la voce prima del labiale e questo mi confonde, aiuto, ho preso il Ritalin, scusate.
TERZO GIORNO
Il terzo giorno di Ritalin non imparo a parlare con la gatta e non si disloca il tempo, ma il naso mi cola ininterrottamente e senza alcun rimedio da mattina fino a sera.
QUARTO GIORNO
SHOW TRIONFALE CON L’ASSESSORE A CIRI
Il quarto giorno di Ritalin, a Ciriè, provincia di Torino, avvengono delle cose. Ma devo fare una premessa. Io sono un caso raro. Anzi: unico. Un logopedista bolognese voleva portarmi a un convegno di logopedisti ed espormi come soggetto di studio. Ho rifiutato. Io sono come un calabrone che vola anche se non potrebbe volare. Io parlo in pubblico quasi tutti i giorni, ma in teoria non dovrei poter parlare. Il logopedista un giorno mi ha detto: tu hai una conformazione assolutamente incredibile, anziché usare l’aria che respiri per far vibrare le corde vocali, tu la disperdi. Poi, dopo un paio di spiegazioni tecniche che vi risparmio – ma che, semplifi cando, vogliono dire che quando gli esseri umani normali si gonfiano e poi espellono l’aria io mi sgonfio ”, ha aggiunto Tu non dovresti neanche riuscire a parlare.
E se qualcuno si è chiesto cosa ci facevo dal logopedista, la risposta è: pur senza sapere di essere un caso unico al mondo, avevo notato qualche difficoltà ricorrente nell’uso della parola, qualche difficoltà a formulare certe frasi, l’incapacità assoluta di leggere i miei scritti ad alta voce. Nonostante ciò, come un calabrone, ho imparato a parlare in pubblico in maniera mediamente comprensibile per un’ora alla volta, e a conversare con gli esseri umani. Basta non mi facciano leggere neppure quattro righe ad alta voce, e non c’è nessun problema, per me. Poi, certe sere parlo per i famosi sessanta minuti con voce chiara e senza difficoltà. Altre sere, il mio strano corpo si ribella e devo un po’ sputarle fuori, le parole che voglio dire. Per cui, se mi fanno una domanda che richiede una risposta articolata e complessa, devo allo stesso tempo pensare a una risposta sensata e concentrarmi per riuscire a scandire e parlare in modo comprensibile. Il tutto sorridendo, perché io non sono uno scrittore cupo e tormentato e ombroso, ma uno scrittore che sorride. Vitaccia, eh? (Meno di quello che sembra. Tranquilli.) Allora, al quarto giorno di Ritalin, vado a presentare il mio libro a Ciriè. Nella sala comunale, nientemeno. In coincidenza con la finale di Amici di Maria De Filippi, cosa che provoca grandi battute tra me e gli organizzatori, nel tragitto Torino-Ciriè. I giovani saranno tutti a casa a vedere Amici anziché venire a sentire me, ridacchio durante il viaggio. La sala comunale è enorme, dispersiva, e con un problema: io e l’assessore alla cultura – donna assai piacente – siamo seduti ai banchi del consiglio comunale, ad almeno dieci metri dal pubblico. Lontano, e difficile da coinvolgere. Oltre che decisamente over 35, dato che i giovani di Ciriè sono rimasti davvero a casa a guardare la finale di Amici.
Dopo l’introduzione dell’assessore, tocca a me parlare. Ogni sera, quando pronuncio la prima parola al microfono, scopro se è una Serata facile o una Serata difficile. Una serata in cui parlo bene, o una in cui parlo male. In cui le frasi escono chiare, le parole si concatenano fluide, o una in cui smozzico e balbetto restando a metà frase senz’aria e senza fiato, una in cui dovrò cavarmela di esperienza e sorridendo. La fortuna di essere un caso unico al mondo. Ma stasera, a Ciriè, non sono io a parlare, forse: è il Ritalin. Nel senso che prendo il microfono, inizio a parlare, e quando smetto di parlare sono passati quaranta minuti e tutti quanti, a dieci metri di distanza, stanno ridendo e applaudendo. Mi fanno tutti i complimenti, a cose finite, mi dicono che dovrei fare l’attore.
Eh, penso. Lo farei, l’attore. Se mi cibassi ogni giorno di Ritalin.
QUINTO GIORNO
Il quinto giorno di esperimento vado a parlare in una scuola vicino a Ferrara. E parlo così male, stavolta, che farei miglior figura a mimare tutto e a esporre dei cartelli. Non diventerò un attore dipendente dal Ritalin. Meglio così.
SESTO GIORNO
SVEGLIO OGNI ORA, IDEE PER NUOVI LIBRI: BOIATE PAZZESCHE
Il giorno successivo non succede niente fino al momento di andare a dormire, quando spengo le luci dopo aver nutrito la gatta sperando di stare in pace fino alle prime luci dell’alba, quantomeno. Appena ho chiuso gli occhi e mi sono lasciato scivolare nel sonno, il Ritalin inizia a fare festa nella mia povera testa. Sogno il cubo di Rubik. Un cubo di Rubik gigante, con i quadratini colorati che si ricombinano da soli, senza intervento di mani umane, ma al posto dei colori ci sono delle canzoni dei Beatles; non i titoli, proprio le canzoni, le melodie. Apro gli occhi. Guardo l’ora: le tre. E mi è venuta un’idea bellissima per un nuovo romanzo. Mi alzo, accendo la luce, cerco febbrile un taccuino, scrivo l’idea. Torno a letto. Sogno di nuovo il cubo di Rubik con le canzoni dei Beatles. Mi sveglio di nuovo con un’idea bellissima in testa, un’altra. Accendo la luce, corro al taccuino, la scrivo. Torno a dormire. Sogno il cubo di Rubik... Vado avanti tutta la notte così. La mattina mi sveglio non proprio riposatissimo ma euforico. Ho partorito almeno cinque romanzi nuovi, grazie al Ritalin! Viva il Ritalin, che spalanca le porte della mente agli artisti! Mi alzo euforico, cerco il mio taccuino, leggo le idee che mi sono appuntato. Sono cinque boiate sconfortanti. Mi ributto sul letto un po’ depresso. Dormirei, ma come mi sdraio la gatta incomincia a camminarmi in testa e, beh, sapete cosa succede in questi casi.
DOPO UNA SETTIMANA
MI SIEDO AL COMPUTER E SCRIVO PER QUARANTA ORE
Poi ci sono due giorni di delirio. Nel senso che: prendo il Ritalin alle dieci e trenta del mattino e non succede nulla di particolare fino alle quattro del pomeriggio, quando mi metto al computer con una frase che mi sembra carina per iniziare un romanzo. E, nelle quaranta ore che seguono, mi alzo dal computer solo per necessità fisiologiche impellenti. Un romanzo! Un intero romanzo! Scritto in due giorni! Centoventi cartelle! Senza dormire! Tipo, le leggende su Kerouac e il celebre On the road scritto su un unico rotolo di carta. Bene. Non sono riuscito a parlare con la gatta, ma direi che lo scopo della sperimentazione è stato raggiunto. Se un giorno leggerete un mio romanzo vagamente noir – dal titolo ancora indefinito – con una protagonista di nome Angela detta Angie, studentessa leccese, sappiate che l’ho scritto così. In quaranta ore, sotto l’effetto del Ritalin.
Fatemi un favore, però. Al mio editore non lo dite. Si sa mai che mi chiuda in uno scantinato della casa editrice, a somministrarmi pasticche con l’imbuto per produrre dieci romanzi al mese. Preferisco vivere.