Vittorio Malagutti, L’Espresso, 27 agosto 2009, 27 agosto 2009
VITTORIO MALAGUTTI PER L’ESPRESSO 27 AGOSTO 2009
Calcio flop Mercato dei calciatori in tono minore. Tifosi delusi. Abbonamenti in calo. Squadre indebitate. E risse tra i padroni dei club. Così la crisi ha colpito il mondo dorato del pallone
Il nuovo stadio Delle Alpi a TorinoIn tempi di recessione il calcio italiano fa il pieno di buoni propositi. Nel mezzo di una crisi che ha devastato l’economia mondiale, i padroni del grande circo del pallone promettono di mettere la testa a posto. Questa volta facciamo sul serio, annunciano i presidenti della serie A mentre prende il via il nuovo campionato. E così Silvio Berlusconi tira il freno sugli ingaggi milanisti ottenendo qualche sì (il presidente della Lazio, Claudio Lotito) e qualche no (da Fabio Cannavaro all’Uefa). La Juve, rifondata dopo i recenti scandali, festeggia il bilancio in utile. E perfino Massimo Moratti ha messo a dieta i conti dell’Inter.
Non era mai successo. Perfino ai tempi grami di Moggiopoli (correva l’anno 2006) le squadre maggiori (bianconeri a parte, causa retrocessione) hanno continuato a crescere a suon di debiti e perdite. Adesso invece tira aria di tagli. Kakà e Ibrahimovic emigrano in Spagna. I tifosi protestano. E allora calano gli abbonamenti. Traballa l’audience televisiva. No, non piace a nessuno il calcio orfano della passata grandeur, quella del "campionato più bello del mondo".
La notizia vera però è un’altra. Ancora peggiore, se possibile. Perché mentre le grandi squadre giocano al risparmio, il resto del sistema rischia comunque di affondare: debiti alle stelle (2 miliardi in totale per la sola serie A), mezzi propri al lumicino (meno di 600 milioni), gestioni avventate, capriole contabili. Solo che adesso, a differenza del recente passato, la cappa scura della recessione chiude ogni spiraglio. La crisi ha prosciugato la stagno in cui sguazzavano i club di taglia media e piccola. Del resto un motivo ci sarà se a dieci giorni dall’inizio del campionato, almeno tre squadre di serie A (Bari, Bologna, Lazio) non erano ancora riuscite a trovare uno sponsor per le loro divise. D’altronde società come il Bari, il Bologna e la Roma sono da mesi ufficialmente in vendita. E anche Catania e Siena, a dispetto delle smentite ufficiali, sono al centro di manovre e contatti informali. Il fatto è che non si trovano compratori. Si moltiplicano gli annunci di personaggi in cerca di pubblicità, dall’uomo dei sogni Joe Tacopina da New York, che l’anno scorso voleva prendersi il Bologna, fino all’ex sodale di Sergio Cragnotti, il procuratore di calciatori Vinicio Fioranelli pronto (diceva lui) a fare un’offerta vincente per la Roma. Di affari veri, però, finora neppure l’ombra. Anche se a Bari seguono con grandi speranze le mosse dello zio d’America Tim Barton, il palazzinaro texano deciso a prendere il posto dei Matarrese nella proprietà del club locale.
Se poi si scende al sottoscala delle serie inferiori il panorama è popolato da presidenti pataccari e affaristi di fama non chiarissima. C’è poco da sorprendersi, allora, se quest’estate ben otto squadre sono state escluse dalla Lega Pro, la vecchia serie C, dopo che erano fallite oppure perché non rispettavano i requisiti di bilancio fissati dalla Federazione. Tra queste anche Avellino, Pisa, Treviso e Venezia, tutte con un passato recente in serie A. Mario Macalli, presidente della Lega Pro, non si è lasciato sfuggire l’occasione di segnalare che molte squadre delle due serie maggiori avrebbero grosse difficoltà ad iscriversi ai rispettivi tornei se anche a loro fossero applicati i parametri finanziari in vigore nella ex C.
Ha un bel dire Adriano Galliani, ex presidente di Lega e numero due del Milan, che è tutta colpa del fisco, dello Stato rapace che spreme le squadre. Un argomento vecchio e anche sbagliato, come dimostra un recente studio della società di consulenza Ernst & Young. La Spagna, il Paese presentato spesso come il nuovo Eldorado del pallone, ha introdotto nel 2004 un regime d’imposte privilegiato per tutti gli stranieri residenti ad alto reddito. La norma è stata studiata per attrarre non i calciatori, ma le imprese multinazionali che così possono contare su risparmi fiscali per i loro manager. Ovviamente anche le squadre di calcio hanno colto al volo l’occasione. E così le star internazionali della Liga pagano solo il 24 per cento di aliquota massima per l’imposta sui redditi contro il 43 per cento dei normali lavoratori dipendenti. In base alla legge, però, il privilegio può valere per un massimo di sei anni consecutivi e ovviamente riguarda solo i calciatori stranieri e non la totalità delle squadre e delle loro rose di giocatori. In teoria si potrebbe applicare lo stesso schema anche in Italia, ma certo non sarebbe facile per Berlusconi (lui stesso impresario del pallone) giustificare i ponti d’oro ai ricconi del football mentre il suo ministro Giulio Tremonti sbandiera la crociata contro i nababbi evasori. Senza contare che all’estero i governi si muovono in direzione opposta. In Gran Bretagna, altro campionato modello secondo molti presidenti nostrani, l’aliquota massima sui redditi personali sta per essere portata dal 40 al 50 per cento. Una novità che non sembra un incentivo all’ingaggio di campioni. Del resto il calcio italiano ha già ricevuto regali milionari dalla politica. Nel 2003 per evitare il fallimento di mezza serie A si è arrivati a scavalcare il codice civile varando una legge ad hoc per spalmare su più anni gli ammortamenti del valore delle faraoniche rose calciatori. Mentre sul fronte fiscale e contributivo le autorità hanno dato via libera a innumerevoli transazioni per sanare le irregolarità delle squadre. passato alla storia l’accordo siglato nel 2005 che consente alla Lazio di pagare a rate in 20 anni un arretrato con il fisco di ben 140 milioni, eredità della gestione Cragnotti.
Alla fine, come al solito, i presidenti si aggrappano ai soldi delle tv e sperano con questi di salvare la barca che affonda. Ma a ben guardare perfino la novità di questi ultimi mesi, e cioè la vendita in blocco gestita dalla Lega calcio dei diritti su tutte le partite di campionato, rischia di venire messa in discussione prima ancora che diventi operativa, a partire dalla stagione 2010-11. L’asta di luglio si è conclusa con la vittoria di Sky per il satellite e Mediaset per il digitale terrestre (solo le 12 maggiori squadre di "A"). Le due televisioni hanno offerto in totale 790 milioni (580 messi dalla sola tv di Murdoch) per trasmettere in diretta un anno di calcio, coppe europee escluse. Questa montagna di soldi dovrebbe essere spartita tra le squadre in base ai criteri introdotti dalla cosiddetta legge Melandri, varata nel 2008 agli sgoccioli del governo Prodi. La stessa legge che assegna alla Lega la vendita del prodotto calcio alle tv, prima gestita dalle singole squadre. I grandi club, forti di un maggior numero di tifosi (e quindi di telespettatori) e di una storia sportiva ricca di successi, sono destinati ad aggiudicarsi la fetta più ricca della torta. Ma i piccoli protestano. La crisi economica ha messo paura a tutti e i club minori temono davvero di affondare. La questione della divisione delle risorse economiche si incrocia con quella del nuovo governo della Lega. Dopo mesi di litigi il club dei presidenti si è deciso al grande passo. In sintesi: serie A e serie B ognuna per la propria strada. Ma la B per acconsentire al divorzio ha preteso un compenso in moneta sonante, quantificato, secondo le intese benedette da palazzo Chigi, nel 7,5 per cento delle entrate totali dei diritti tv. Solo che i presidenti della serie cadetta, sganciati dal carro della A, hanno paura di essere abbandonati a un destino di debiti e fallimenti. Peggio: alcuni di loro paventano che la separazione preluda a una nuova rivoluzione, con i grandi club che si fanno un campionato tutto per loro. Possibile? Intanto, per capire che aria tira, basterà aspettare l’assemblea di Lega convocata per il 25 agosto. " la solita vecchia storia", commenta Michele Uva, autore di un volume di prossima pubblicazione sulla crisi del pallone promosso dalla società di ricerche Arel. "I presidenti", spiega Uva, "litigano sulla spartizione delle risorse esistenti invece di promuovere lo sviluppo di nuove fonti di reddito ". Che poi sarebbero il merchandising e stadi di proprietà delle società sportive. Sul primo fronte, ovvero magliette e gadget vari con i colori delle squadre, l’Italia resta il paradiso dei falsari. Per gli stadi invece, risorsa fondamentale nei bilanci dei club inglesi e spagnoli, soltanto la Juve è passata dalla parole ai fatti appaltando la costruzione di un nuovo impianto. E gli altri? Tutti i progetti, più o meno concreti, si sono fin qui arenati di fronte alla burocrazia dei Comuni. E poi mancano i soldi. Così le squadre tornano a bussare al governo. Questa volta chiedono una quota, il 3 per cento, sul prelievo statale su giochi e scommesse. Peccato che in tempi di crisi economica riesce difficile pensare agli stadi come una priorità per il sistema Paese.