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 2009  agosto 25 Martedì calendario

IL SUPERUOMO, CHE ABBAGLIO ANCHE FOUCAULT E’ CADUTO


Tra il ’68 e il ’77 si fa avanti in Francia una generazione di filosofi radicali. Si costruiscono un ruolo nel movimento della contestazione. Parlano di ribellione al potere, di desiderio e affermazione delle differenze, di forze individuali in lotta con qualsiasi organizzazione "totalitaria", Stato, partito o sindacato che sia. Hanno un riferimento comune. Si chiama Nietzsche. Un filosofo che fino agli anni ’60 era trattato da autore di "destra", antidemocratico e pervaso di aristocraticismo. Il clima cambia con l’uscita di due libri: Nietzsche e la filosofia di Deleuze del 1962 e Le parole e le cose di Foucault del 1966. Da questo momento Nietzsche diventa un eroe che piace alla gauche . Viene letto come un critico spietato della società borghese, un contestatore radicale del falso illuminismo delle moderne democrazie occidentali. Il "superuomo" - celeberrima formula nietzscheana - è il tipo di un’umanità futura, di un individuo finalmente libero dal senso di colpa e senza tabù sui propri istinti vitali. La filosofia nietzscheana sembra fare piazza pulita di ogni ideale repressivo, di ogni morale ascetica, di ogni teoria generale. Niente più ideali e sublimazioni, soltanto una nuda volontà di affermazione e un primordiale principio di realtà.
Tra i lettori entusiasti di Nietzsche c’è anche Foucault. A lui è dedicato in gran parte il saggio di Jan Rehmann, I nietzscheani di sinistra (Odradek edizioni, a cura di Stefano Azzarà, pp. 238, euro 20), una delle poche interpretazioni critiche (da sinistra), anzi l’unica, tra i tanti libri usciti quest’anno su Foucault - il venticinquesimo dalla sua morte. La tesi - detta in sintesi - è che il nietzscheanesimo ribelle di Foucault, come pure di Deleuze - sia nato da un grande equivoco e che entrambi avrebbero confuso la vera natura "dominatrice", per nulla liberatoria, della volontà di potenza di Nietzsche con la volontà di affermazione dell’individuo: per essere più precisi con la potentia agendi di un altro filosofo amato dalla contestazione: Spinoza. Nietzsche intende il potere come dominio, Spinoza invece distingue dall’autorità ( potestas ) dello Stato che «subordina dall’alto», la potentia delle moltitudini. La potenza spinoziana è una cooperazione, è il modo in cui gli individui agiscono ed entrano in relazione fra loro, affermando la propria esistenza come in un aggregato. La potenza di Nietzsche è invece tutt’altra cosa, è dominio immediato, violenza, guerra di sopraffazione non sublimata che nelle moltitudini vede semmai un avversario di cui sbarazzarsi.
Nell’equivoco, secondo Rehmann, cadrebbe anche Foucault che confonde la "volontà di potenza» nietzscheana con una visione pluralistica della realtà, di un campo di forze individuali in lotta per la propria affermazione e liberazione. «Il significato dell’espressione "volontà di potenza" consiste in questo: naturalizzare il dominio e la violenza identificandoli con l’essenza della vita in generale». «E’ sorprendente che le teorie postmoderniste, che sono sorte per rivalutare ciò che è disperso e frammentato contro il "terrore" della verità, della ragione, dell’universale e della rappresentazione, passino sotto silenzio questa trasfigurazione filosofica del comando irrazionale e del dominio immediato della violenza da parte di Nietzsche. Egli stesso ha spiegato molto chiaramente di voler porre come fondamento della vita organica e inorganica un potere/dominio tirannico» che si scaglia contro gli "istinti democratici dell’anima moderna", contro "l’ostilità da plebei per tutto quanto è privilegiato e sovrano"».
Già in Le parole e le cose il nietzscheanesimo di Foucault si fa sentire nella tesi della «morte dell’uomo». Qui Nietzsche (assieme ad Heidegger, ma questo è un altro discorso) è preso a modello di un nuovo antiumanesimo anti-idealistico. Foucault se la prende con l’antropologia, con le scienze umane moderne che hanno inventato il concetto di "essenza umana" in generale, ma finisce con l’accomunare tutte le varianti dell’umanesimo fra loro, indipendentemente se finalizzate alla passività o alla trasformazione della realtà. Si scaglia anche contro le teorie di sinistra che «vogliono ancora parlare dell’uomo, del suo regno e della sua liberazione». All’umanesimo sostituisce il superuomo di Nietzsche che appare una rivalutazione di «questa vita», della «vita individuale» contro ogni riferimento a valori astratti che morale, religione e filosofia hanno sinora fatto.
Eppure «il flirt postmodernista con l’eterno ritorno non vuole rovesciare nella pratica la filosofia morale universalistica di Kant, fondata sulla generalizzazione, per concretizzarla come l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti sociali più inumani ed umilianti, come aveva tentato Marx. Vuole invece sostituirla mediante l’arte di vivere particolaristica di Nietzsche». Il superuomo cela una natura dominatrice, vive «come gli dèi di Epicuro», «secondo le proprie leggi e distante dalla plebe» anche se il comandare è «una necessità da seguire con riluttanza». Il superomismo può funzionare come una droga per l’individuo atomizzato, privo di «legami sociali solidali» e che dalla propria posizione subalterna aspira a un rango più elevato e immagina se stesso come superiore. Ma in questo revanchismo non c’è una protesta per la miseria reale, è piuttosto una sofferenza che si trasforma «in un odio generalizzato verso la sofferenza stessa - scrive Rehmann - un odio che si sfoga nei confronti dei deboli e trascina la nausea dell’uomo fino alle fantasie di sterminio» verso una superiore forma di aristocratismo. Quando Foucault nella sua tesi della morte dell’uomo fa proprio il riferimento a Nietzsche sottovaluta il significato sociale del superuomo, la sua vocazione antiegualitaria. Per Nietzsche l’uguaglianza è un «fantasma» artificiale creato dall’istinto di massa: «non esiste una specie ma soltanto vari esseri individuali». Il superuomo vuole l’«eliminazione dell’uguaglianza, la creazione di superpotenti». In Zarathustra , quando la plebe afferma che non ci sono uomini superiori perché «l’uomo è uomo; davanti a Dio siamo tutti eguali» la risposta nietzscheana suona così: «davanti a Dio! Ma questo Dio è morto». Non a caso del superuomo sono circolate letture di "destra".
Foucault non avverte questi timori: il suo Nietzsche è invece trasformato in un eroe che si ribella al conformismo e alle regole in nome della scelta individuale e della "differenza". Ironia della sorte sarà proprio questo Nietzsche, riletto a proprio uso e consumo, ad accompagnare Foucault nella sua svolta radicale dopo il 68. Di Nietzsche farà anzi un uso correttivo di Marx. Quel che invece il marxismo non vede, a detta di Foucault, è che il potere è qualcosa di pervasivo e mobile. Combattiamo «tutti contro tutti» - dirà Foucault in un’intervista del ’77 - e «c’è sempre qualcosa in noi che combatte qualcos’altro in noi». Contrariamente a Marcuse, altra icona del 68, Foucault non pensa che il potere sia repressione e che la sua potenza consista nel "dire no", nell’interdire, nell’enunciare la legge e far funzionare il divieto. Il potere è produttivo , le sue tecniche di potere producono individui docili. Questo potere capillare è ovunque, si compie di «microperazioni» e va studiato nelle sue istituzioni locali attraverso una «microfisica».
Eppure, secondo Rehmann, qualcosa non torna. Da un lato, Foucault batte sul tasto della "molteplicità" del potere e dei suoi centri: il bidello, il direttore di carcere, il giudice, il delegato sindacale, il capo redattore. Ma dall’altro, cela un «essenzialismo», un potere onnipotente che sta sotto e dietro i rapporti sociali, un maître-pouvoir . Sarebbe questo il prezzo più alto pagato da Foucault per il suo debito col nietzscheanesimo. «La produttività del potere: proprio questo è Nietzsche, nella misura in cui concepiva la sua volontà di potenza come l’unica e onnipresente forza produttiva nella natura, nell’individuo e nella società». Tutta la realtà si riduce a una scena teatrale sulla quale, nonostante le apparenze e le dissimulazioni, recita un unico e solitario attore: la volontà di potenza. Un nudo istinto di dominio non sublimato. Tutto il resto - ogni sapere, ogni discorso, ogni regola - è finzione e invenzione di questo potere. L’umanesimo, la giustizia, l’uguaglianza sono ostacoli di cui sbarazzarsi per liberare il «desiderio del potere». E’ una strada però che conduce Foucault pericolosamente vicino al disprezzo che Nietzsche nutriva per le teorie universalistiche, soprattutto per la "follia plebea" del socialismo. Certo, per Foucault la volontà di potenza ottiene «il carisma della ribellione in quanto tale». Il "basso" che Foucault contrappone alle ideologie universalistiche è una costruzione nella quale confluiscono «miti dell’immediatezza di "destra" e di "sinistra"», una combinazione di «vigore fisico, forza, energia», un «intreccio di corpi, passioni e di casi». «Foucault segue lo schema nietzscheano che smaschera nell’ideologia il cielo di valori del preteso universalismo e umanismo solo come una forma di potere occulto». Ma ignora che la violenza, la guerra, l’istinto di dominio che «fa entrare in scena come una sorta di affascinante antiideologia» sono in realtà essi stessi una potente ideologia. E sottovaluta, forse, che a quel cielo di valori delle ideologie universalistiche sono legate anche le aspirazioni delle classi subalterne che «bisognerebbe estrarre da esse e mettere in pratica». Un giudizio severo quello di Rehmann. O forse no.