Roberto Zichittella, il Riformista 26/8/2009, 26 agosto 2009
UOMINI E COLONNELLI 40 ANNI DI GHEDDAFI
Parigi. Muhammar Gheddafi ci fa compagnia da quarant’anni. Eppure, dopo tutto questo tempo, i media internazionali non hanno ancora capito come scrivere esattamente il suo nome. Per gli italiani è sempre stato Muhammar Gheddafi (o più semplicemente "il colonnello Gheddafi"), ma tra inglese, francese e vari dialetti arabi si contano una trentina di versioni diverse del nome e del cognome del leader libico. Il primo a rallegrarsi di questa molteplicità di nomi è probabilmente lui stesso. Gheddafi si diverte a sorprendere e spiazzare. Lo fa con i look bizzarri e imprevedibili, ma soprattutto con i suoi comportamenti e le sue mutevoli scelte politiche. Così, a 67 anni, oggi Gheddafi ci appare più che un vecchio dinosauro, un abile camaleonte. Pronto a cambiare pelle per garantirsi la sopravvivenza e restare al centro dell’attenzione del mondo. L’unica certezza, da quando il 1° settembre 1969 scalzò con un colpo di Stato l’anziano re Idris I, è che Gheddafi è rimasto un colonnello. Da un tipo così ci si poteva aspettare, prima o poi, un’autopromozione a generale. Invece Gheddafi, convinto che la società libica sia «governata dal popolo» (questo è il significato della parola Jamaihiriya, con la quale si definisce il Paese nordafricano) non ritiene necessarie ulteriori qualifiche.
Quanti Gheddafi abbiamo conosciuto in quarant’anni? Nei primi anni del regime, quando il colonnello scrive e diffonde il suo "Libro Verde", Gheddafi si presenta come leader di un «socialismo islamico» nel quale convivono ideali socialisti, pan arabismo e una moderata osservanza della morale islamica. Sono gli anni in cui la diplomazia di Gheddafi gioca su più tavoli. Cerca un regolamento di conti con l’Italia espellendo dal Paese i circa 20 mila italiani ancora residenti, si trova in sintonia con il leader egiziano Nasser e con il tunisino Bourguiba, appoggia Arafat e cerca l’appoggio dell’Unione Sovietica. Ma non riesce a trovare mai forti alleati. Egli sembra suscitare più diffidenza che fiducia. Gheddafi appare ancora più insidioso quando all’inizio degli anni ’80 si schiera apertamente in favore di gruppi terroristici, dei quali diventa un generoso finanziatore. Il suo nome spunta dietro le attività del gruppo palestinese "Settembre nero", ma è aperto anche il suo sostegno ai nordirlandesi dell’Ira. Nell’aprile del 1986 Ronald Reagan tenta di regolare i contri con Gheddafi ordinando dalla Casa Bianca il bombardamento di Tripoli e Bengasi. Il colonnello salva la pelle e risponde lanciando due missili che affondano davanti alle coste di Lampedusa.
Due anni dopo ci sarà l’attentato al volo Pan Am nel cielo di Lockerbie. La strage costerà alla Libia l’embargo e l’isolamento internazionale. Ma dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 Gheddafi si schiera contro Al Qaeda e comincia a trasformarsi da lupo in agnello. Rinuncia ai suoi programmi di armamento, ammette davanti all’Onu la responsabilità del regime in vari attentati, paga risarcimenti alle vittime. La comunità internazionale riabbraccia il figliol prodigo e nel 2004 Tony Blair è il primo leader occidentale di peso che atterra a Tripoli per stringere la mano al colonnello. Fra una giravolta e l’altra del suo leader che cosa è cambiato per la popolazione libica? Giriamo la domanda a Luis Martinez, 43 anni, francese, ricercatore a Sciences Po e al Centers for International Studies and Research (Ceri) di Parigi, esperto di Maghreb e di Libia. Nel 2007 Martinez ha pubblicato negli Stati Uniti, edito dalla Columbia University Press, un saggio intitolato The Libyan Paradox. «I libici», risponde Martinez, «ripetono sempre le stesse cose. "Siamo ricchi di petrolio per niente", dicono, e intanto puntano il dito contro le cose che non vanno: la sanità, la scuola, le infrastrutture. La figura di Gheddafi, che ormai appare come un vecchio patriarca, una sorta di patrimonio storico nazionale, viene risparmiata dalle critiche».
Secondo Martinez Gheddafi è ancora ben saldo in sella. «La scena politica è stata desertificata. L’opposizione islamista è stata liquidata negli anni ’90 e i gruppi tribali non hanno voce. Ma non si deve pensare a un regime particolarmente sanguinario. Nei confronti degli oppositori politici è stato fatto di peggio in Siria, in Algeria o in Iraq. In ogni caso l’opposizione politica è inesistente. Non si vede all’orizzonte nessuna apertura politica, per non parlare di libere elezioni democratiche». Tuttavia il regime di Gheddafi non resta immobile. «Stiamo assistendo», dice l’esperto francese, «a una trasformazione. Il sistema nato dalla rivoluzione, viziato da aspetti a volte mafiosi, si sta mutando così da consentire lo stesso tipo di gestione politica, resa però più accettabile e razionale. L’obiettivo non è quello di liberalizzare il Paese, ma di renderlo più accessibile e attraente soprattutto per gli investitori stranieri». E l’Occidente fa bene a dialogare con questa Libia? «Sì», risponde Martinez, «dialogare serve sempre e non ha senso rimettere la Libia ai margini della comunità internazionale. I leader occidentali, compreso Berlusconi, fanno bene ad andare a Tripoli, anche se in queste visite ci vuole un serto savoir faire».