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 2009  agosto 26 Mercoledì calendario

KARZAI-ABDULLAH, E’ TESTA A TESTA


Din Mohammad uno dei portavoce del presidente Hamid Karzai

Il ristorante Boccaccio, nel cuore della Kabul diplomatica, vicino al lussuoso hotel Serena, è il perfetto esempio dell’Occidente incistato nella capitale asiatica. Un edificio moderno, grandi vetrate, nel verde, protetto da triplice sbarra di metallo, jersey di cemento che costringono le auto a rallentare, metal detector all’entrata e guardie armate. Dentro divani rossi, megaschermi con la Cnn. Di proprietà di un bosniaco, personale dei Paesi dell’ex Urss, uzbeki, kirghisi. Clientela occidentale: diplomatici giornalisti analisti. Imprenditori locali. Menù internazionale, il cibo arriva, fresco, via aereo. Lontani dalla guerra che infuria al Sud e ieri ha devastato Kandahar con la morte di decine di civili.
E’ tutto un incrociarsi di telefonate al cellulare per l’imminente rilascio dei primi risultati elettorali. Le indiscrezioni, o forse le speranze, parlano di compromesso, di dati che non scontentino nessuno, non accendano la miccia. E infatti, alle cinque e mezza locale, all’Hotel Intercontinental, altro fortino del mondo ricco, la Commissione elettorale, per mezzo del suo baffuto portavoce, annuncia, dopo le sparate di Hamid Karzai e Abdullah Abdullah su vittorie con il 60-70 per cento, una sostanziale parità. Per il presidente poco più del 40 per cento, per lo sfidante quasi il 39.
Certo, si tratta soltanto del 10 per cento dei voti totali scrutinati. Meno di 600 mila, per un’affluenza che dovrebbe fermarsi sotto il 40 per cento, dato pessimo. Ma sono voti da tutte le province, per dare un quadro un minimo attendibile.
Onu, Ue, Nato, hanno lavorato febbrilmente dietro le quinte, questa volta. La Commissione elettorale è stata sottoposta a una tremenda pressione, e ha evitato sfacciati favoritismi. Certo, il fiume sotterraneo dei brogli sta venendo in superficie. Abdullah, prima che la Commissione parlasse, ha mostrato prove, filmati dai seggi che mostrano schede timbrate come alla catena di montaggio, centinaia per Karzai, una o due per lui.
Ma la prospettiva del ballottaggio, sempre più scontato, getta acqua sul fuoco. La Commissione ha ribadito che tutti i reclami saranno esaminati, i voti fasulli eliminati. «Basta con lo stillicidio, solo noi siamo tenuti a proclamare il vincitore». Non prima del 4-5 settembre. Per i diplomatici occidentali è un sospiro di sollievo. Per gli afghani che credono nello sviluppo, un primo passo. Saad Mohseni, proprietario della Tolo tv, la più vivace dei network privati, ha il suo programma, che riecheggia un’accoppiata celeberrima: «Scuole ed elettricità».
Sull’educazione la cooperazione internazionale sta producendo il massimo sforzo. E le scuole gialline che punteggiano la provincia di Kabul sono il primo segno di concretezza. L’elettricità, nella capitale, è arrivata, costante, da circa un anno. Prima c’era tre ore al giorno. L’allaccio con l’elettrodotto che dall’Uzbekistan va in Pakistan è stata una svolta che ha fruttato parecchi voti a Karzai. Un progresso voluto fortissimamente da Kai Eide, rappresentante speciale del segretario dell’Onu Ban Ki-moon e a capo dell’Unama, la missione della Nazioni Unite in Afghanistan.
La cooperazione tanto disprezzata, sottolinea un giovane diplomatico italiano, comincia a dare risultati, anche se con tempi biblici: «La legge sulle donne è stata migliorata tantissimo, c’è stato dibattito, sono intervenute le parlamentari. Lo stupro legalizzato è stato cancellato, di fatto. Siamo in una repubblica islamica, non dimentichiamolo, nella Costituzione c’è scritto che va sempre rispettata la sharia. Chiedere di più è impossibile. E’ già una rivoluzione».
Bruno Jaquet, analista dell’ambasciata francese, è più pessimista: «Nel sistema giudiziario manca totalmente il senso dello Stato, lo spirito di sacrificio. Vorrei portare qui qualcuno dei vostri giudici anti-mafia, per spiegare agli afghani la passione per la giustizia. Se no le leggi resteranno morte». Il rischio che la presenza occidentale si trasformi in una burocrazia di carta è fortissimo. Con i suoi gipponi bianchi, la falange dei funzionari Onu è vista come una nuova casta. Le centinaia, migliaia di alti stipendi hanno causato una bolla negli affitti, nei servizi, che se dà lavoro a qualcuno svantaggia molti. Una casa nel quartiere Wazir Akbar Khan va in locazione a 2-3 dollari al mese, manco fossimo a New York.
E poi, fuori dalla provincia di Kabul, già a 200 chilometri a sud, nel Gazni, lo Stato evapora. «Di giorno ci sono i posti di blocco della polizia, dalle sei di sera quelli dei taleban», spiega Fareed, un autista che viaggia in tutte le province. Nel sud profondo, la guerra peggiora. Ieri Kandahar è stata teatro di un attacco in stile iracheno, cinque autobombe collegate tra loro che hanno portato morte e distruzione. «Ho sentito la terra tremare. La corrente è saltata, quindi è seguito il rumore di un’esplosione enorme», è stata la testimonianza di Agha Lalai, del consiglio provinciale locale. Bilancio terrificante: 41 morti, 64 feriti, tutti civili: gli attentatori hanno scelto come bersaglio una strada piena di negozi e locali.
Nell’Ovest le nostre truppe fronteggiano attacchi quotidiani. Ieri, un posto di frontiera della polizia afgana è stato attaccato vicino a Bala Morghab, al confine con il Turkmenistan: gli insorti hanno ucciso due agenti afgani e i militari italiani sono dovuti intervenire. Più a sud, nel feudo talebano dell’Helmand, altri quattro soldati statunitensi hanno perso la vita, dilaniati dallo scoppio di una bomba al ciglio della strada. Vista da lì, anche Kabul è lontana.
Diario da Kabul