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 2009  agosto 26 Mercoledì calendario

GIAPPONE AL VOTO, VOGLIA DI CAMBIAMENTO


I sondaggi: dopo 54 anni al potere Ldp sarà sconfitto Hatoyama, leader democratico: aiuti alle famiglie

PECHINO – Perdere con grazia. Suona bene. E Taro Aso l’ha promes­so: se perderò, cercherò di farlo con grazia. Occorre prepararsi. Aso sta conducendo la sua prima e probabil­mente unica campagna elettorale da primo ministro del Giappone, una corsa che assomiglia a un auto-fune­rale politico. Per il voto di domenica 30 alla Camera bassa solo i temerari scommettono sul Partito liberalde­mocratico (Ldp) al governo. E un pre­mier che è anche, per tradizione, il ca­po del partito di maggioranza deve mostrarsi saggio soprattutto quando le cose sembrano destinate al peggio. Nipote di un primo ministro, Shigeru Yoshida, l’asciutto Aso ha recuperato una frase che il nonno ascoltò dall’ul­timo capo di governo del Giappone in guerra, Kantaro Suzuki: perdere con grazia. Appunto. Perché, racco­mandò Suzuki a Yoshida, di fronte al­la sconfitta bisogna imitare la carpa, «che, anche una volta sul tagliere do­ve verrà fatta a pezzi, non vacilla».

Chi è stato investito della missio­ne di fare a pezzi Taro Aso sul tagliere elettorale si chiama Yukio Hatoyama. Che ha davanti a sé un’occasione sto­rica. Non solo portare alla vittoria il suo Partito democratico (Dpj), che ha 11 anni di vita: mettere fine al domi­nio ininterrotto dell’Ldp, al governo dal 1955 (tranne 11 mesi nel ”93-94). L’agenda del Dpj sembra attrarre me­no della semplice idea di cambiamen­to. La scorsa settimana, un sondag­gio dell’ Asahi Shinbun ha mostrato che il Dpj potrebbe razziare 300 dei 480 seggi della Camera bassa, mentre l’Ldp vedrebbe i parlamentari dimez­zarsi a 150. Con l’appoggio di un paio di forze minori, il Dpj riuscirebbe a gestire la maggioranza qualificata di due terzi. In questo modo, si compi­rebbe la scalata al potere degli outsi­der democratici, cominciata con la fi­ne del controllo dell’Ldp alla Camera alta e proseguita prima dell’estate con un successo a Tokyo. Resta l’inco­gnita del comportamento degli eletto­ri, che potrebbero ritrarsi all’ultimo di fronte al cambiamento, perciò Ha­toyama invita a non fidarsi dei son­daggi. E qui si torna all’agenda di Ha­toyama. Che promette, ad esempio, significativi aiuti alle famiglie la cui sostenibilità è contestata dall’attuale gabinetto conservatore. O che pro­spetta un maggior disimpegno del Giappone dagli Usa.

L’insoddisfazione verso l’Ldp pe­sa. L’invecchiamento del partito, l’esaurirsi della sua capacità di attra­zione, il parossistico ricorso a candi­dature ereditarie nei collegi sembra­no tutti indizi di un apparato inade­guato ai tempi. Con la crisi che ha pre­so a martellate l’autostima del Giap­pone e la sicurezza economica delle famiglie, neppure i segni di ripresa – crescita allo 0,9% nel secondo tri­mestre che ha fatto parlare di reces­sione conclusa – sembrano destina­ti a salvare all’Ldp. E qualora il Parti­to democratico riuscisse davvero a sbaragliare i rivali, sarebbe una spe­cie di requiem, quantomeno provvi­sorio, per l’intreccio economico-poli­tico- finanziario che ha alimentato vi­ta e interessi dei liberaldemocratici: vorrà dire qualcosa se nel 2007 la Nip­pon Keidanren, la principale associa­zione imprenditoriale, aveva versato nelle casse dell’Ldp quasi 2,9 miliardi di yen (oltre 2 milioni di euro) e desti­nato soltanto 80 milioni di yen al Dpj.

Alla comunità degli scettici, pronti invece a sottolineare la continuità tra Dpj e Ldp, si iscrive il commentatore Takashi Yokota, che in un intervento pubblicato a luglio rimarcava quanto il Partito democratico «stia diventan­do di giorno in giorno sempre più si­mile al suo avversario», e non certo nel bene: «Prendiamo la corruzione», e ricordava come in maggio il prede­cessore di Hatoyama alla guida del Dpj, Ichiro Ozawa, si fosse dovuto di­mettere per uno scandalo sui finan­ziamenti di partito. In caso di cambio duraturo, le novi­tà andranno a toccare anche gli equili­bri regionali e globali. La Cina lo sa anche se tace, fedele alla dottrina del­la non ingerenza. Il Giappone è la se­conda, boccheggiante economia mondiale; la Cina è la terza, e dalla co­munità internazionale le viene rico­nosciuta una tenuta rispetto alla cri­si; Pechino è stata cooptata nel club dei Grandi ed è ascesa a un G2 si­no- americano. Tuttavia, non serve immaginare l’interesse di Pechino per la contesa elettorale nipponica se­condo vecchie categorie. Che il Dpj sia una formazione di centrosinistra e possa battere un partito di centrode­stra, al Partito comunista cinese non importa: «Poteva essere così negli an­ni Settanta, non oggi», avverte Ole Ar­ne Westad, professore di storia inter­nazionale alla London School of Eco­nomics. «Un governo del Dpj – dice al Corriere – costringerebbe la Cina a riconsiderare le propria posizione, mentre con l’Ldp ha lavorato bene, dunque meglio non cambiare interlo­cutore. E soprattutto: l’ultima cosa che Pechino vuole è un lungo perio­do di incertezza». In altre parole, per Westad i cinesi tifano per Taro Aso. L’Ldp, stabilmente al governo elezio­ne dopo elezione, con la sua profon­da interconnessione con i poteri eco­nomici, la saldatura con la burocrazia e l’estabilishment, col controllo dei collegi anche per via nepotistica, for­nisce un modello plausibile per i co­munisti cinesi nell’evenienza – per ora futuribile – di evoluzione in sen­so democratico della Repubblica Po­polare.

Non è un caso che gli scambi tra i due Paesi nel 2008 abbiano raggiunto i 266 miliardi di dollari e che la Cina sia il secondo mercato per l’export nipponico. «Chiunque vinca, sul pia­no economico non cambierà nulla», aggiunge Lian Degui, il vicedirettore del centro sul Giappone allo Shan­ghai Institute for International Stu­dies. «Nel Dpj ci sono più figure vici­ne alla Cina, ma i due partiti sono quasi uguali. La Cina – spiega Lian – aveva rapporti con Ldp già prima del 1972 (anno dell’avvio delle rela­zioni diplomatiche tra Giappone e Ci­na Popolare, ndr ). Poi, certo, ci sono stati elementi di destra che hanno fat­to sorgere problemi con le visite al tempio Yasukuni e con rivendicazio­ni territoriali: ma occorre dividere le interpretazioni della storia da quella che è la linea dei liberaldemocratici. Il Dpj cercherebbe una maggiore au­tonomia in campo militare rispetto agli Usa. Se Tokio si allontana dagli Usa si avvicinerà naturalmente alla Ci­na. E potrebbe persino approfittare del cambio di governo per cambiare politica verso la Corea del Nord».