Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  agosto 25 Martedì calendario

LO SCOOP CHE UCCIDE


Il filosofo francese Michel Foucault giunge alla deprimente conclusione che «l’uomo non esiste», che ogni essere umano è solo una lunga sequela di simulacri variopinti fatti, disfatti e rifatti dalle variabili circostanze della realtà in cui trascorre la propria vita. Ancora più audace, e magari anche più frivolo, Jean Baudrillard si spinge oltre e arriva alla conclusione che non esiste neppure ciò che crediamo realtà quando abbracciamo l’essere amato o intingiamo la penna nel calamaio, perché la vera realtà in cui vive il bipede contemporaneo non è il mondo che egli è convinto di calcare, ma le immagini che fingono di rifletterlo e altro non sono se non le versioni manipolate e interessate che ne danno i media audiovisivi al servizio dei potenti dello stesso mondo.
Queste divertenti, brillanti e illusorie costruzioni intellettuali - così, almeno, le giudicavo io - hanno appena ricevuto una sorprendente conferma, un’indicazione concreta che se le cose ancora non sono così potrebbero arrivare a esserlo presto. Lo spiego a modo mio, che non è, certo, quello del filosofo, ma quello più modesto del raccontatore di storie. Trasferiamoci a Manaos, capitale dello Stato brasiliano dell’Amazzonia, famosa per essere stata, alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX, uno dei centri principali del boom del caucciù di cui rimane testimonianza in un teatro barocco dove si dice che abbia cantato Caruso. Fino a non molto tempo fa il re del piccolo schermo, a Manaos e in tutta la vasta regione amazzonica, era un giornalista e produttore chiamato Wallace Souza, che dirigeva alla tv locale un programma poliziesco intitolato Canale libero. In questa trasmissione si trattavano, con scabroso realismo, i crimini, le aggressioni, le violenze e le altre ferocie quotidiane attraverso le quali, in Brasile come in tutto il resto del mondo, le reti tv cercano di assicurarsi l’agognata audience blandendo i peggiori istinti del grande pubblico.
Il successo del programma è stato tale che Wallace Souza ha deciso di mettere a frutto la sua popolarità e di passare dal giornalismo televisivo sensazionalista e truculento alla politica (i due campi non sono, poi, così distanti). Ci è riuscito con una rapidità vertiginosa: alle ultime elezioni è stato eletto deputato con il più alto numero di voti dell’intero Stato dell’Amazzonia.
Cambio di scena, nella stessa esotica e asfissiante Manaos. La polizia locale arresta un ruffianello del posto, ex poliziotto e killer a pagamento, dal pomposo nome di Moacir Moa Jorge da Costa, sospettato d’un rosario di crimini e fatti di sangue, omicidi compresi. Interrogato e ammorbidito con metodi che non è difficile immaginare, confessa. Sì, ha ucciso, ma non per pura malvagità o per avidità di denaro, ma in modo professionale, su incarico del nuovo fiammante deputato e stella mediatica dell’Amazzonia: Wallace Souza. Passato lo sconcerto derivante da questa rivelazione, gli investigatori incominciano ad annodare i fili e le tessere, a poco a poco, si sistemano come in un puzzle. Tutti i crimini che ha commesso o ai quali ha preso parte Moacuir Moa da Costa erano stato meravigliosamente raccontati nei programmi di Canale libero e, in tutti, le ubique e onniscienti telecamere del deputato erano giunte sul luogo del delitto contemporaneamente agli assassini.
Le indagini portano a questo stupefacente risultato: Wallace Souza compiva raccapriccianti delitti con l’unico intento di filmarli prima dei concorrenti per fabbricare le notizie che tenevano incollata al video la vasta platea di teleutenti alimentata con sangue, brutalità e schifezze a fiumi. Per questo aveva allestito un gruppo strutturato di collaboratori, abili con la pistola e il coltello, scelti nell’organico delle stesse forze di polizia.
Fin qui i dati obiettivi. Adesso le considerazioni, le valutazioni e le meditazioni. Dal punto di vista etico, come giudicare Wallace Souza? Non si può negare che avesse una formidabile coscienza professionale. Si è macchiato di crimini, certo, ma con il nobile intento di servire il proprio pubblico non defraudandolo e continuando a somministrargli quell’orrore sanguinario che era il suo piatto preferito, quello che induceva tutta Manaos ad accendere il televisore e a sintonizzarsi su Canale libero con la stessa ansia con cui il fumatore apre il pacchetto di sigarette o l’alcolista porta alle labbra il bicchiere.
Wallace Souza ha la totale responsabilità d’essere giunto a questi eccessi esecrabili o la divide con la folla di morbosi, subnormali, pervertiti e imbecilli ai quali la vista di donne sventrate, bambini decapitati, anziani sgozzati, regolamenti di conti fra bande che si affrontano e si uccidono fa trascorrere una serata divertente? Non è difficile, per chi sia abituato alle schermaglie intellettuali, dimostrare che Wallace Souza è un prodotto di quel XXI secolo nel quale la cultura dominante - in gran parte per la miseria intellettuale generata dalla tv nella sua frenetica corsa alla conquista dell’audience frugando nelle sentine della vita, distruggendo la privacy, cavalcando senza scrupoli le storie più indegne e degradanti - ha polverizzato tutti i valori sconvolgendoli al punto che «divertire» e «distrarre» sono diventati il valore supremo, la priorità delle priorità anche se, per raggiungerlo, bisogna prendere il prossimo a rivoltellate e a colpi di pugnale. Da questo punto di vista, assassino finché si vuole, il direttore e produttore di Canale libero» è un eroe, o un martire, di quella cultura che, con l’ausilio della mirabolante rivoluzione audiovisiva, abbiamo costruito per l’epoca in cui viviamo.
Da un altro punto di vista, quello del «principio di realtà» pascaliano, faccio autocritica e riconosco che quanto è accaduto a Manaos trasforma le teorie (che, prima, mi sembravano deliranti e sofistiche) di un Foucault e di un Baudrillard in qualcosa che comincia a mostrare obiettive conferme nel nostro straordinario mondo. Se Wallace Souza ha commesso questi crimini solo per trasformarli in immagini, è evidente che, per lui e per i suoi spettatori - anche se questi sono stati, certo, meno consapevoli di lui - la realtà reale era meno importante, meramente sussidiaria o pretesto, della realtà riflessa dalle telecamere che, adeguandola perfettamente al gusto del pubblico, la ricomponevano, la modificavano e la ricostruivano in modo che diventasse qualcosa che la realtà reale è solo raramente: eccitante, terribile, divertente. Wallace Souza è la prima, palpabile dimostrazione che l’uomo non è una totalità definita, ma una materia plasmabile e mutevole, una pasta o una creta a cui la dimensione immaginaria della vita promossa dal sistema educativo più diffuso e più potente della storia - quello dei teleschermi - dà forma, trasfigurandolo in ossequio al capriccio delle mode.
Non vi piace il mondo in cui viviamo? Peggio per voi, perché tutto sembra indicarci che, ormai, non possiamo più aggrapparci al vecchio espediente di spegnere l’apparecchio televisivo. Oggi la televisione comincia a essere la vita stessa e noi le sue inesistenti comparse.