Massimo Sideri, Corriere della sera 24/8/2009, 24 agosto 2009
ECCO IL «WELFARE DEI BAMBINI» COSI’ L’ISLANDA DIMENTICA IL CRAC
Gli assegni di maternità anche per disoccupati e studenti
REYKJAVIK – Cullati dalla gelida aria tersa di Reykjavik Gudrun, Insibjorg, Sigurdur e Gunnar sonnecchiano nelle loro carrozzine impellicciate fuori dal Cafè Paris, nella centralissima Austurstræti. «Siamo solo in agosto, l’inverno sarà lungo e si devono fortificare per affrontarlo » scherza senza mostrare sensi di colpa Anna, la mamma di Insibjorg, come se parlasse di una cucciolata di pinguini. Lei con una tazza di mokka fumante tra le mani e il giubbino in polartec ’66˚ North’ – la marca più diffusa dell’isola – buttato su una sedia del locale riscaldato. La bimba, appena un mese di vita, a dormire con i suoi amichetti fuori tra copertine di lana, pile e il sibilo di un vento «vichingo» con cui sembrano divertirsi solo i gabbiani che popolano la città di mare.
Sono i kreppa babies come sono stati battezzati, i figli di quella crisi finanziaria che poco più di nove mesi fa ha fatto scoppiare il piccolo regno dei prodotti derivati al centro dell’Oceano, lasciando solo i vecchi geyser, il prospero turismo estivo per le balene, lo spettro del paese di pescatori che Reykjavik è stato fino agli anni Novanta e un debito con il Fondo Monetario Internazionale che turba i sonni di Isleifur Gislason, ex meccanico di aeroplani della Icelandair. Tutti i giorni Isleifur, cappellino e trombetta, inscena una protesta in Thorvaldsensstræti a due passi dal cafè: monta un filo da panni sulla piazzetta e vi attacca con delle mollette bamboline e articoli di protesta in islandese: «Io sono vecchio, probabilmente non cambierà nulla per me. Ma abbiamo un debito per sette anni con l’Fmi. E a pagarlo saranno loro, i nostri bambini ». Loro, i bimbi islandesi, sorridono come tutti gli altri bimbi. Ma più che per il loro debito pro-capite stanno diventando un caso per l’inatteso boom da crisi. Nel vicino Landspitali, l’Ospedale universitario nazionale che si trova proprio dietro Hallgrimur, la cattedrale neogotica simbolo da cartolina della città ora coperta dalle impalcature per il restauro, hanno fatto i conti: nei primi sei mesi dell’anno i bimbi sono cresciuti del 3,3% mentre la disoccupazione passava da un tasso da Eden (l’1%) all’attuale 7-8%.
La piccola vulcanica isola, a modo suo, non sembra volersi arrendere. Il Morgunbladid , il principale giornale dell’isola con 50 mila copie vendute, ha dedicato un articolo alla «teoria» dei kreppa babies proprio in questi giorni. Ma molti islandesi si mostrano scettici. «Quando ho letto di questa storia insieme alle persone che conosco abbiamo pensato fosse solo divertente» racconta Valgerður Benediktsdóttir, una ragazza che lavora per la Forlagid Publishing, la casa editrice dei maestri islandesi del genere poliziesco. Uno per tutti Arnaldur Indridason, sei milioni di copie nel mondo. «Questa teoria può essere giusta o sbagliata, ma personalmente credo sia sbagliata» sentenzia. Inutile domandare se per strada, lo scorso novembre, c’era anche lei. Con lo spettro del default e la svalutazione della corona locale c’erano tutti in piazza quando per qualche giorno Reykjavik ricordò la Buenos Aires del 2001 con i cacerolasos a far chiasso per il crac dei Tango bond.
«Non sono sicuro che il fenomeno continuerà a lungo» conferma Urður Gunnarsdóttir, portavoce del ministro degli Affari esteri. A lasciare perplessi c’è una popolazione complessiva di appena 319 mila islandesi, una piccola Bologna svuotata dagli studenti, in un territorio che sì, viene descritto grande come la Gran Bretagna: ma per capire fino in fondo cosa sia l’Islanda bisogna sorvolarla almeno una volta scoprendone l’affascinate crosta di materiale lavico e sculture della natura. Un paradiso per i turisti. Un inferno impraticabile per l’economia di contadini e pastori. Insomma la percentuale di crescita del 3,3% ha tutto un altro sapore di fronte ai numeri assoluti: rispetto alla prima parte del 2008, cioè in zona pre-crisi, i bimbi sono 2.389 contro 2.313, solo 76 in più. E per giunta in una popolazione che – sarà per l’inconscio timore di estinzione o il buio – già si contendeva con Francia e Irlanda il tasso di natalità più alto d’Europa.
Passato il picco di luglio, il sole in questo periodo tramonta obliquamente dopo le 23 e le famiglie con le carrozzine sembrano voler sfruttare fino all’ultimo secondo il regalo della luce estiva: passeggiando per la città ci si convince velocemente che la teoria dei kreppa babies alimentata dalla popolare blogger locale, Alda Sigmundsdòttir, faccia parte di quel mondo di saghe che popolano il piccolo paese scandinavo che ha chiesto l’ingresso in Europa. Ma, a sorpresa, è proprio il governo islandese a crederci e a rilanciarla: « vero: contrariamente ai trend dei Paesi limitrofi – spiega il ministro per gli Affari Sociali, Arni Pall Arnason – le nascite stanno crescendo nonostante le drammatiche condizioni economiche. Certo, è difficile determinare le cause esatte di questo sviluppo. probabile, comunque, che la nostra generosa legge sul parental leave non abbia scoraggiato le persone dall’avere bambini, anzi il contrario». Il sistema introdotto nel 2001 e corretto negli anni seguenti, spiega Anna Sigrun Baldursdottir dello stesso ministero, permette di avere l’80% del reddito incassato l’anno precedente alla nascita del bambino. E questo per ben 9 mesi se il congedo viene utilizzato sia dalla madre che dal padre. «C’è un tetto massimo di circa 2.500 euro al mese, ma anche uno minimo di circa 1.200, e si gode delle stesse protezioni se si è studenti a tempo pieno o anche disoccupati. Bisogna inoltre considerare che come negli altri sistemi scandinavi qui non è molto costoso crescere un bimbo: ci sono molti servizi di assistenza durante i primi anni di vita e le aziende hanno degli asili per i figli dei dipendenti: anche mio figlio in questo momento è al lavoro con mio marito».
Una cosa è certa: la crisi qui c’è anche se in agosto la città è ancora invasa da italiani, francesi, inglesi e americani e trovare un posto nel popolare FishMarket è un’impresa. Per gli islandesi ha una forma precisa. Un’enorme cantiere quasi fermo che si staglia proprio in centro, sul mare, davanti allo storico albergo Sas 1919. Nella fantasia immobiliare pre-crisi doveva essere una gemma: la nuova Opera house, modernissima e distante anni luce dall’orgoglio neogotico della cattedrale. «Il progetto era privato – confessa con una smorfia Anna Sigrun – ma ora è diventato pubblico per tenere alta l’occupazione. la crisi».