Franco Giubilei, La stampa 24/8/2009, 24 agosto 2009
LA MODA? QUESTIONE DI RITMO
Quentin Tarantino batte se stesso al box office: Inglourious Basterds, il suo ultimo film sulla Seconda Guerra Mondiale ha sbancato i botteghini nordamericani conquistando anche il miglior risultato della carriera per il regisita di Pulp Fiction. Il film con Brad Pitt ha incassato 37,6 milioni di dollari, oltre dieci milioni di dollari sopra le aspettative. In passato Kill Bill Due di Tarantino aveva guadagnato 25,1 milioni di dollari nel primo week-end nelle sale e concluso la presenza ai cinema con 66 milioni di dollari. Anche se resta Pulp Fiction finora il Tarantino più redditizio con incasso complessivi di 107 milioni di dollari negli Stati Uniti e in Canada.
Il successo di Inglourious Basterds è un’iniezione di capitale benvenuta per lo studio indipendente dei fratelli Bob e Harvey Weinstein (di cui si parla in questi giorni per i problemi con il msuical Nine), che lo hanno prodotto in collaborazione con il distributore internazionale Universal Pictures. I Weinstein, che per Inglorious Basterds hanno speso 70 milioni di dollari, avevano fatto un colpo grosso finanziando Pulp Fiction, ma da quando sono tornati sulla scena con una casa di produzione indipendente nel 2005 non hanno avuto finora impatto nè sul box office nè agli Oscar.
Intanto Tarantino elogia Brad Pitt, il suo nuovo pupillo sul set, paragonandolo a Robert Redford. «Pitt è diventato famoso nel 1991 con Thelma e Louise, io nel 1992 con Le Iene, lo seguo da allora e mi è piaciuto seguirlo nel corso degli anni - dice -. un attore meraviglioso e mi sento come doveva sentirsi Sydney Pollack mentre girava Jeremiah Johnson e osservava Robert Redford recitare. Brad ha le stesse qualità, che risplendono attraverso la cinepresa». Pitt nel film è lo spietato tenente Aldo Raine, incaricato di guidare una missione segreta per diffondere il panico tra le truppe naziste, durante la Seconda Guerra Mondiale. «Ho pensato a lungo di inventare un personaggio perfetto per Brad Pitt, per poter avere una collaborazione con lui speciale come un fuoricampo di Babe Ruth. Mentre scrivevo questo film ho capito che il leader dei Basterds sarebbe stato il personaggio giusto per lui. Allora gli ho spedito la sceneggiatura, ci siamo incontrati e dopo una lunga notte a parlare di cinema, e qualche bottiglia di vino, era pronto a firmare l’accordo». Quando gli squatter londinesi strapazzavano chitarre da poco, vestiti con sacchi della spazzatura e pantaloni rattoppati, certo non pensavano che di lì a poco Vivienne Westwood avrebbe riciclato tutto in salsa fetish, inventandosi la moda punk per rivendersela a caro prezzo. E i primi concerti dei Sex Pistols, che fra l’altro si erano incontrati proprio nel negozio della Westwood grazie al marito Malcolm Mc Laren? Niente creste o latex nero fra il pubblico, formato da veri sbandati sottoproletari che si rispecchiavano fedelmente nel look straccione di Johnny Rotten e dei suoi sul palco. Passa un anno o poco più e le strade si riempiono di ragazzi borchiati con anfibi firmati ai piedi. La grande truffa del rock’n’roll, come l’avrebbe chiamata il regista Julian Temple, è già cominciata: il punk è diventato un affare sia nei negozi di dischi che nelle boutique, alla faccia dei buoni propositi dei duri e puri del movimento che volevano fare a pezzi il music business del rock tradizionale. Molti anni dopo, coi Nirvana e il grunge, ecco i kids di mezzo mondo in camicioni a scacchi e bermuda over-size e, in tempi più recenti, i ragazzini con cappello esistenziale sul modello di Pete Doherty, il non più giovanissimo maledetto dei Babyshambles.
In realtà tutto questo va avanti da almeno mezzo secolo, da quando la musica pop – intesa nel senso più vasto di quel gran calderone che va dal rock’n’roll all’elettronica, dai Beatles fino a Madonna -, è diventata fenomeno di massa stringendo un patto d’acciaio con la moda. A ricostruire la storia della santa alleanza fra dischi e vestiti, arriva ora un bel libro firmato dal sociologo Ted Polhemus e dal critico musicale Pierfrancesco Pacoda, dal titolo programmatico La rivolta dello stile (edizioni Alet). Una storia che si è snodata sotto gli occhi di qualunque osservatore attento che abbia frequentato concerti, discoteche, club e rave party, ma che nessuno finora si era preso la briga di raccontare fin dal preludio, cioè dagli abiti indossati in scena dai jazzisti newyorchesi negli Anni Quaranta: c’erano gli zooties, con i completi enormi di due o tre taglie più grandi, e gli hipster, a indicare chi ascoltava l’hot jazz. Il pubblico nero che andava ai concerti si abbigliava così, come ricorda anche Malcolm X nel racconto dell’acquisto del suo primo vestito zoot.
Il primo patto modaiolo fra musicisti e fan era stretto, da questo momento si sarebbe intrecciato in maniera inarrestabile passando da un genere musicale all’altro, da un look all’altro: con la rivoluzione Usa del rock and roll compaiono anche i teddy boys dai capelli pettinati in ciuffi colossali che ricadevano dietro il collo nella caratteristica forma «a culo d’anatra». Anche Marlon Brando ci mette del suo nel film Il selvaggio, facendo decollare il mito dell’eroe americano maledetto Anni Cinquanta. Da questa parte dell’oceano si risponde di lì a poco coi mods in eskimo e cravattino e la loro passione per gli Who e il soul nero. Poi esplode il fenomeno Beatles, sempre estremamente attenti all’aspetto: i Fab Four fanno tendenza grazie alle giacche senza bavero, poi nella divisa di Sergeant Pepper e infine nella versione fricchettona del periodo indiano.
Londra spadroneggia nel mondo della moda, le pop star si fanno vestire da Mary Quant diventando a loro volta modelli stilistici per folle di ragazzi adoranti. La corsa all’estetismo prosegue sfrenata fino al glam rock, quando David Bowie si traveste da Ziggy Stardust e Bryan Ferry e Brian Eno si inventano i Roxy Music. Verso la metà degli Anni Settanta ci pensa il punk a fare momentaneamente piazza pulita dei manierismi del rock’n’roll, ma è solo un’illusione, perché anche i più brutti sporchi e cattivi vengono ben presto cucinati e rivestiti a festa. Negli Anni Ottanta sarebbero arrivate le derivazioni neo-gotiche e il new romantic alla Spandau Ballet, quindi l’eterno ritorno dell’uguale del brit-pop nel decennio successivo, mentre in America le periferie nere fiorivano di rap, break-dance e, naturalmente, di moda da strada. «Quando la musica pop e gli stilisti iniziarono ad andare a letto insieme ci si chiese chi avrebbe divorato l’altro – scrive Polhemus – E’ triste, ma pare che entrambi siano stati annientati dall’atto coniugale».