Pietro Calvisi, il manifesto, 23/8/2009, 23 agosto 2009
«Con la nuova legge costretti a evitarli» - Di storie di pescatori siciliani che negli anni hanno salvato tante barche cariche di migranti provenienti dall’Africa settentrionale, anche mettendo a rischio la propria vita e quella dei loro equipaggi, le cronache dei giornali hanno sempre parlato
«Con la nuova legge costretti a evitarli» - Di storie di pescatori siciliani che negli anni hanno salvato tante barche cariche di migranti provenienti dall’Africa settentrionale, anche mettendo a rischio la propria vita e quella dei loro equipaggi, le cronache dei giornali hanno sempre parlato. Giuseppe Genna, 45 anni, è il comandante della «Maria Pina», uno dei 400 pescherecci della flotta di Mazara del Vallo (la più grande d’Italia), che insieme ad altri colleghi uscì con mare forza 9, lo scorso 27 novembre del 2008, per portar in salvo una barca con circa 350 migranti a bordo. «Ci trovavamo, viste le pessime condizioni del mare, nel porto di Lampedusa quando - ha raccontato Genna - la capitaneria ci ordinò di uscire per soccorrere i migranti, visto che i loro mezzi non potevano prendere il largo a causa della tempesta. Eravamo 4 barche e, una volta individuato il natante alla deriva, abbiamo deciso di trasbordarli sotto costa su un solo motopesca: il Twenty-one. Quando il mare si è calmato un po’ siamo poi rientrati in porto». Lei e il suo equipaggio siete stati insigniti di una medaglia per questo pericoloso intervento? No. E infatti, già l’ho fatto presente in passato, mi è sembrata un’assurdità. Lasciamo stare il compenso economico, che è stato di 10mila euro, ma solo il Twenty-one è stato insignito del riconoscimento, mentre gli altri tre pescherecci che sono usciti insieme a lui non hanno avuto niente. Ho avuto invece altri riconoscimenti a livello regionale, ma non da Roma. Con la nuova legge sul reato di immigrazione clandestina lei intende ancora portare a bordo e soccorrere i migranti, che spesso si possono trovare in mare? Assolutamente no. Cercherò di evitarli. Se mi dovessero venire sotto bordo certo non li posso buttare in mare, ma se dovessero stare a distanza, certo dispiacendomi e facendo una cosa per me contro natura, li eviterei. Primo, per la burocrazia che mi ferma la barca uno o due giorni in porto perchè devo sbrigare i documenti che mi richiedono le autorità. Secondo, anche per quello che mi è successo quando, rischiando la mia vita e quella dell’equipaggio, non ci è stato riconosciuto ciò che ci spettava. I miei marinai mi hanno rimproverato dicendomi: «La nostra vita vale meno di quella del Twenty-one?» Terzo anche per i rischi che si corrono nel soccorrere queste persone che, una volta vicini alla barca, si alzano e agitano rischiando di finire in mare o di capovolgere il mezzo. Poi se muore qualcuno la colpa è sempre nostra, del comandante. Noi andiamo a lavorare e non siamo attrezzati per questi interventi. vero che spesso i pescatori cercano di evitare anche di dare l’allarme se avvistano delle imbarcazioni? Capita, perchè una volta dato l’allarme dobbiamo stare lì e aspettare che arrivino i soccorsi che spesso giungono dopo 12 o 15 ore. Non possiamo stare con il barcone fermo a fare la sorveglianza. Noi non abbiamo uno stipendio fisso, lavoriamo alla giornata e ogni ora persa nessuno si impegna a risarcirla. E nessuno si ricorda di noi, anche nel dare le notizie, quando salviamo i natanti. Da quanto è stato firmato l’accordo di amicizia italo-libico, in mare trovate meno imbarcazioni? Si, da un po’ di tempo, negli ultimi mesi, il fenomeno si è attenuato. Però vorrei sollevare la questione dei limiti marittimi su cui possono operare i pescherecci italiani, in particolare nei confronti della Libia che fa partire le proprie aree di intervento oltre le 75 miglia dalla linea retta tracciata da un lato all’altro del golfo della Sirte. Questa questione va definita. Noi operiamo entro le 12, Malta ne ha 24 e quindi ci troviamo accerchiati con poco mare su cui andare a pescare.