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 2009  agosto 20 Giovedì calendario

METROPOLITAN IL "MUSEO CANAGLIA"


Spacciandosi per un aristocratico, il fondatore sottrasse a Cipro 12 mila reperti archeologici; quando negli anni Trenta la guida toccò allo «zar» di New York Robert Moses, a tenere banco furono le rivalità fra i super-ricchi; mentre il filantropo Charlie Wrightsman lo sfruttò per campeggiare sulle pagine di Vanity Fair e scalare i salotti di Manhattan. Sono alcuni tasselli di Rogues’ Gallery, il ritratto spietato del «Museo canaglia» racchiuso nelle 545 pagine del libro in cui il giornalista investigativo Michael Gross descrive il Metropolitan Museum sulla Quinta Strada come un luogo dove «dietro ogni dipinto c’è una fortuna e dietro questa c’è un peccato o un crimine».
Gross spiega ai lettori che il Met - la maggiore attrazione turistica di New York con 4,5 milioni di visitatori l’anno - non ha cooperato con il libro, anzi ha tentato di ostacolarlo. Per capire il perché basta addentrarsi nelle vicende narrate. A cominciare dalla parabola dell’immigrato piemontese Luigi Palma di Cesnola, un ex soldato di ventura che nel 1865 riuscì a spacciarsi per eroe della Guerra Civile e stretto conoscente dell’assassinato presidente Abramo Lincoln, facendosi nominare console americano a Cipro: lì fiutò il business dell’archeologia, passando notti intere a saccheggiare tombe antiche e accumulando così un tesoro di 12 mila pezzi d’antiquariato grazie ai quali diventò il primo direttore del Met nel 1879.
Cesnola, che vantava un inesistente titolo di «conte», si opponeva all’apertura domenicale del museo per impedire l’accesso ai visitatori più poveri considerandoli «spazzatura impegnata a sbucciare banane, mangiare e perfino sputare». Nacque così l’identità di un museo elitario gestito da despoti quali il magnate J. P. Morgan, descritto come «paranoico fino alla fine dei suoi giorni», o il direttore William Ivins, meglio conosciuto come «Ivins the terrible» dai dipendenti a cui ricordava il terribile zar Ivan IV di Russia, o Arthur Houghton, presidente fra il 1964 e 1969, che sfruttò l’ambita carica per «sposare una moglie dopo l’altra con l’ultima sempre più giovane di quella precedente».
Gross non risparmia nessuno dei mostri sacri del «Museo canaglia»: ricorda che Thomas Hoving, alla guida dal 1959 al 1977, amava riferirsi a Nelson Rockefeller - figlio del predecessore John Rockefeller in carica fra il 1912 e il 1938 - come un «tipo dal lamento facile» per raccogliere donazioni, mentre Robert Lehman, primo presidente del cda negli Anni Settanta, si oppose alla designazione di un amministratore ebreo sostenendo la differenza tra i rispettabili «ebrei episcopaliani» - ai quali sentiva di appartenere - e tutti gli altri, dai quali era meglio stare alla larga. A fronte di un’impeccabile immagine pubblica, il gotha dell’arte cittadina esce ridimensionato da Gross, che svela molti «panni sporchi accumulati in segreto»: come nel caso di Charlie Wrightsman, uno dei filantropi più corteggiati, che «dovette assoldare maestri di buone maniere per insegnare alla moglie Jayne come stare seduta a tavola e come parlare in inglese corretto».
L’intreccio fra direttori, presidenti, consigli di amministrazione, curatori, filantropi, compratori e alti funzionari cittadini è descritto con una mole di particolari imbarazzanti - dalle donazioni estorte a quelle ottenute con matrimoni di comodo - tali da ridicolizzare la sicurezza con cui Philippe de Montebello, direttore del museo fino allo scorso anno, ripeteva che «qui non abbiamo segreti». Alla penna dell’autore non sfugge Robert Moses, l’urbanista considerato il demiurgo della moderna New York, che sfruttò i fondi comunali, ai quali aveva accesso come commissario dei parchi, per pagare i costi di gestione del Met; ma il suo scopo non era quello di salvarlo dal fallimento, bensì di far ammettere l’amante in un consiglio d’amministrazione fino a quel momento solo maschile. Il vecchio Rockefeller, invece, nel regalare al Met il parco col castello «Cloisters» (realizzato a Nord di Manhattan con opere d’arte provenienti dall’Europa), si accordò con il futuro direttore James Rorimer per assegnare al poco noto artista francese George Grey Barnard il compito di trafugare tesori. La conclusione di Gross è che il falso conte Cesnola si è trasformato «in un modello per tutti coloro che lo hanno seguito», dando vita a una serie di frodi, furti, avidità e arroganza che hanno contribuito a fare del Met il museo più importante d’America.
Nulla da sorprendersi dunque se, dopo l’uscita in libreria per i tipi di Broadway Books, il libro sia stato denunciato per diffamazione da Annette de la Renta, filantropa e membro del cda. Anna Wintour, sua fedele amica e socio onorario del Met, ha coperto di insulti l’autore mentre il nuovo direttore, Thomas Campbell, ha preferito chiudersi in un «no comment» che a molti è sembrato una velata ammissione. Il turbine di polemiche aiuta le vendite Rogues’ Gallery e l’autore, noto ai newyorkesi per aver narrato in 740 Park la storia del condominio più esclusivo della città, si dice soddisfatto di essere riuscito a dimostrare quanto «persone potenti e molto visibili abbiano influenzato con i loro peccati la nostra cultura».