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 2009  agosto 20 Giovedì calendario

”IO, AFGHANO DELL’ONU LAVORO CON IL TERRORE DI ESSERE SCOPERTO”


Ero in visita alla mia famiglia, nel Sud Est dell’Afghanistan, lo scorso mese, quando mi è squillato il cellulare. Pur riconoscendo subito il numero, non ho osato rispondere. Era una mia collega, con cui lavoro all’ufficio del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP), a Kabul. Non ho risposto perché non potevo correre il rischio che mi sentissero parlare in inglese. La maggior parte dei membri della mia famiglia, nella provincia di Paktia, non sa che lavoro per le Nazioni Unite. Pensano, dal momento che gliel’ho detto io, che gestisco un’impresa privata - lo stesso pensano i miei vicini di casa, a Kabul. La verità, se si sapesse, potrebbe infatti metterci tutti in pericolo.
 per questo che non ho mai programmato i numeri di telefono dei miei colleghi internazionali nel mio cellulare. Non voglio, infatti, che qualcuno me li trovi, nel caso mi dovessero perquisire ad un posto di blocco. Quando parto per il Sud del paese, per andare a trovare la famiglia e gli amici, lascio il cellulare di lavoro a casa.
Purtroppo, questa situazione non è affatto inconsueta. Molti miei colleghi afghani, al WFP, fanno la stessa cosa. Alcuni di loro prendono addirittura precauzioni ulteriori, per proteggersi dai rischi che affrontiamo, tutti i giorni, solo andando al lavoro. Qui in Afghanistan, c’è chi ritiene che sia vietato lavorare con dei non musulmani. Alcuni sono disposti ad usare la violenza per far rispettare questo idea, e non fanno differenza tra chi lavora per una forza militare straniera o chi invece per un’agenzia umanitaria.
Anche il divario tra i ricchi e i poveri è un problema. L’Afghanistan è uno dei paesi più poveri sulla terra, e qualcuno pensa che quelli di noi che lavorano per le agenzie internazionali siano ricchi - cosa che potrebbe rendere, noi e le nostre famiglie, obiettivi di rapimenti a scopo di estorsione. Una volta, non molto tempo fa, un impiego alle Nazioni Unite era considerato qualcosa di cui vantarsi. Un lavoro come il mio avrebbe portato prestigio e status sociale.
Tuttavia, la motivazione che spinge me, e molti miei colleghi, a lavorare ha delle radici più profonde, e ci induce ad affrontare i rischi che accompagnano il nostro lavoro. Quando mi guardo intorno, vedo un paese che ha un disperato bisogno di sviluppo, di stabilità e di crescita. Trenta anni di conflitto ci hanno tenuti separati dal resto del mondo. L’Afghanistan ha bisogno, ora, di un impegno continuo con la comunità internazionale, per riparare i danni provocati da decenni di conflitto. E ha bisogno anche di gente capace e istruita, per costruire un futuro migliore.
Per quanto mi riguarda, sento che è mia responsabilità aiutare il mio paese. Non si tratta solo di sfamare oltre 8 milioni di persone, facendo fronte ai bisogni umanitari immediati, così crudamente visibili da queste parti, ma anche utilizzare il cibo come strumento di sviluppo. Per esempio, nella riabilitazione dei canali di irrigazione, o nel fornire pasti scolastici ai bambini, aiutandoli così a costruirsi un futuro migliore e gettando le basi per uno sviluppo e una ripresa continuativi.
Ieri 19 agosto si celebrava, per la prima volta, la Giornata Mondiale Umanitaria, in omaggio alla dedizione di molte migliaia di operatori umanitari che, nel mondo, hanno speso la loro vita al servizio di una causa umanitaria. Vogliamo ricordare soprattutto coloro che la vita l’hanno persa, nel corso del loro lavoro di assistenza. Qui in Afghanistan, ogni giorno che passa mi ricorda che là dove maggiori sono i bisogni umanitari, spesso sono maggiori anche i pericoli nel rispondere a quei bisogni. Per quanto mi riguarda, so che non mi fermerò, e continuerò a lottare contro la fame nel mio paese.