VALERIA FRASCHETTI, La Stampa, 25/8/2009, 25 agosto 2009
India, l’outlet del cuore - Sotto i ferri c’era già finita, Latifa. Sette interventi all’aorta che avevano prosciugato i risparmi dei genitori, ma non restituito al suo cuore di vent’anni la capacità di pompare con naturale armonia
India, l’outlet del cuore - Sotto i ferri c’era già finita, Latifa. Sette interventi all’aorta che avevano prosciugato i risparmi dei genitori, ma non restituito al suo cuore di vent’anni la capacità di pompare con naturale armonia. Quasi a corto di speranze, hanno lasciato l’Oman per l’ultima scommessa: Hrudayalaya Narayana Hospital. Hanno pagato il biglietto aereo Mascate-Bangalore. Sola andata, per scaramanzia. «Al resto delle spese ci ha pensato l’ospedale», spiega lo zio seduto nel reparto accanto alla ragazza, che ora scalpita per tornare a casa con una nuova valvola nel petto che funziona meglio di un orologio svizzero. Al Narayana - mille posti letto, tremila entro la fine dell’anno - i ricchi pagano tutto, i poveri quello che possono, anche nulla. Un’operazione al cuore qui costa 1500 euro, contro i quarantamila che può costare negli Stati Uniti. Ma lo scorso anno, dei seimila cardiopatici operati, solo un quinto ha pagato il prezzo pieno. E non è stato solo questo a convincere Latifa a imbarcarsi per l’India. In questa clinica le operazioni al cuore hanno un tasso di riuscita del 95 per cento. Un risultato superiore a quello degli ospedali dello Stato di New York, come ha scritto C.K. Prahalad nel bestseller «La fortuna alla base della piramide». Un successo che pare inverosimile per un Paese come l’India, dove la maggior parte degli ospedali non svetta certo nelle classifiche internazionali in tema di igiene. La chiave è l’esperienza: non c’è posto sulla Terra che abbia fatto del cuore la sua specialità quanto il Narayana, dove arrivano pazienti indiani e di circa venti altre nazionalità. Con almeno trenta operazioni al giorno, qui si esegue il maggior numero di cardiochirurgie al mondo e il dodici per cento di quelle fatte in India. Interventi a prezzi stracciati, quando non gratuiti, in sale operatorie che nulla hanno da invidiare alle cliniche europee. Vista così sembrerebbe un’impresa in perdita netta. Invece l’anno scorso il gruppo ha registrato un fatturato di quattro milioni di euro. Per capire il segreto di questo imponente outlet della sanità alla periferia di Bangalore, studiato anche dall’Università di Harvard, seguiamo una delle hostess in sari lampone e beige fino al sontuoso ufficio del dottor Devi Shetty. «A cent’anni dalla prima operazione al cuore, solo l’8 per cento della popolazione mondiale può permettersela - racconta il chirurgo che nel 2001 fondò il Narayana, dopo aver lavorato a Calcutta al fianco di Madre Teresa. Ne ha una foto sulla scrivania, accanto a santini indù e buddhisti -. Vogliamo che la sanità privata sia accessibile ai poveri, e per farlo seguiamo un approccio alla Wal-Mart». Ovvero, tagliare i costi grazie all’economia di scala. Un esempio, le analisi del sangue: «La maggior parte degli ospedali ne fa trenta al giorno, noi circa duemila». Numeri che permettono al dottor Shetty di convincere le aziende fornitrici a «parcheggiare» i macchinari al Narayana e a farsi pagare solo i reagenti per i test. Se il primo mantra è la quantità, il secondo è l’efficienza, perseguita anche con metodi che da noi aizzerebbero in un baleno la furia dei sindacati. Ogni paziente è assistito da un’infermiera personale, rigorosamente in piedi, «perché nel momento in cui le dai una sedia la sua efficienza si abbassa del 30 per cento», spiega il dottor Shetty prima di congedarsi: lo aspettano 80 visite, un’operazione a cuore aperto, e altre visite a distanza. Grazie al centro di telemedicina collegato con 56 Paesi, per lo più africani. Secondo Ernst&Young, negli ospedali del subcontinente ci sono solo 0,86 letti ogni mille abitanti, contro i 3,2 negli Stati Uniti. Con il metodo Wal-Mart entro cinque anni il Narayana intende crearne altri 30 mila, aprendo delle «città della salute» in tutto il Paese. Ma non è l’unico a voler colmare il divario. Approfittando della disponibilità economica di indiani e stranieri facoltosi, la sanità privata sta diventando un settore rampante. Attirati da un’assistenza di qualità ma comunque low-cost per le loro tasche, sono ormai milioni gli occidentali che arrivano in India per turismo medico. Entro tre anni i loro acciacchi alimenteranno un’industria da oltre 2 miliardi di euro. E le strutture private che vogliono aiutare chi è alla base della piramide indiana saranno ben contente di curarli. Stampa Articolo