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 2009  agosto 25 Martedì calendario

I postcomunisti hanno perso il senso dell’orientamento - Cambiare opinione in politica è utile, anzi necessario

I postcomunisti hanno perso il senso dell’orientamento - Cambiare opinione in politica è utile, anzi necessario. Solo un partito di mummie e di scervellati resta in eterno «sulle proprie posizioni» e invecchia senza imparare niente. Ma cambiare opinione non è che il primo passo. Bisogna evitare, dopo aver cambiato opinione, di schierarsi ogni volta, per un automatismo sciagurato, dalla parte sbagliata: al fianco di tutti gli energumeni che agitano il pugno contro l’Occidente boia, per esempio. Ma proprio questo fanno gli ex comunisti da quando non sono più comunisti e ormai neanche più laburisti, ma democratici di scuola postveltroniana (e persino neocentristi, per arruffianarsi Pier Ferdinando Casini). Se c’è da insegnare, poniamo la buona educazione a Israele, li troviamo sempre in prima fila, insieme ai maestri di galateo di Hezbollah e di Hamas (come può testimoniare chiunque, nelle serate uggiose di mezza estate, ascolti le trasmissioni in onda su Rai 3). C’è da chiamare «delitto contro la cultura» il taglio delle sinecure con le quali si finanziano, con i soldi dello stato, (vostri e miei) i film senza spettatori? Dario Franceschini (è un ex democristiano, e non un ex comunista, ma non vuol essere da meno) parte in quarta, puntando dritto verso il disastro: «se c’è una cosa su cui l’Italia deve investire, e non tagliare, è proprio la cultura, lo spettacolo», senza capire che fare di spettacolo un sinonimo di cultura è in pratica come travestirsi da Silvio Berlusconi, veline e tutto. In Afghanistan, sotto le elezioni, tornano le bombe talebane? Qualche anno fa, ai tempi dell’Unione prodiana, avrebbero subito strillato che l’Italia doveva «lasciare immediatamente il teatro di guerra». Adesso s’accontentano di lanciare frecciatine al capitalismo globale e fingono di non accorgersi che la politica estera di Barak Obama è la stessa di George W. Bush, «bombardamenti indiscriminati» compresi (e intanto non smettono di ricordarci, da una parola in su, che con i fondamentalisti è imperativo dialogare, che intendano o non intendano ragione). Schierati infallibilmente dall’altra parte, a favore (e persino nel campo) del nemico, come ai tempi della sudditanza sovietica, quando non c’era causa atlantica che si sentissero «in coscienza» d’abbracciare, i postcomunisti si dicono sempre «sconcertati» (è uno degli aggettivi preferiti da Massimo D’Alema) quando qualcuno gli fa notare questa loro predisposizione al passo falso. Gli ex comunisti arrivano agli appuntamenti storici con dieci, venti, trenta, quaranta, cinquant’anni di ritardo, ma ci arrivano con aria sempre un po’ stizzosa, come se fossero gli altri, per impazienza, ad essere arrivati con troppo anticipo. Sappiamo che rinnegano il Gulag stalinista e che, tra Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer, ormai preferiscono il primo. Mai più tiferebbero per i carri armati russi contro i ribelli ungheresi o per i missili cubani contro Jfk. Sono per la democrazia parlamentare, anzi borghese, purché naturalmente non si pretenda d’«esportarla», come la pizza e il parmigiano. Hanno lasciato, senza traumi né rimpianti, la via vecchia per la nuova. Eppure ogni volta ci ricascano. Un po’ è che temono di stare con i perdenti (metti che torni a splendere il sole sui colli fatali dell’utopia). Ma soprattutto detestano che qualcuno li scavalchi a sinistra: Tonino Di Pietro, la Lega, Giulio Tremonti. Come un ago magnetico impazzito, puntato sia verso il nord che verso il sud della storia, i postcomunisti sono la peggior disgrazia capitata al senso dell’orientamento del nostro paese.