Marino Niola, la Repubblica, 25/8/2009, 25 agosto 2009
ELEGANZA: QUELLO STILE CHE HA VESTITO HOLLYWOOD
"Passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia". Così Leopardi nel celebre Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, si riferisce a quel culto dell´esteriorità, a quella recita del quotidiano, a quella socialità senza società che tanto affascinavano i viaggiatori del Grand Tour.
Religione dell´apparenza, etica dello stile, imperativo della bella figura. Anche da questo nasce l´eleganza che tutto il mondo ci riconosce e ci invidia da sempre, perfino quando ne stigmatizza gli eccessi. Perché è proprio da un eccesso di cura di sé che nasce quell´attenzione straordinaria per le questioni di forma, per i dettagli maniacali, per i particolari minuti che caratterizza la via italiana alla moda.
Non è un caso che i grandi protagonisti del Made in Italy da vestire abbiano tutti in comune un´arte della finitura, un´ideale di compiutezza dell´opera sempre vicinissima all´alto artigianato, qualche volta all´arte tout court.
il caso dei Gucci, una dinastia di ambasciatori del lusso italiano, che coniuga da sempre la sapiente manualità delle antiche botteghe toscane con una certa idea dell´eleganza di campagna all´inglese. Il fascino del rinascimento in salsa british. Alla maniera di Bernard Berenson e James Ivory.
La casa nasce negli anni Venti con Guccio Gucci, un nome che fa pensare subito all´arte, come Dosso Dossi. Maestro della forma, del colore, ma anche dei materiali. Ben presto le borse e le valigie Gucci diventano simboli dell´eleganza entre les deux guerres, fatte per una clientela internazionale che vive una transumanza dorata fra Parigi e Gstaad, tra Marienbad e Biarritz, come i personaggi di Agata Christie e di Thomas Mann. Neanche la guerra e la mancanza di materiali fermano l´irresistibile ascesa dei Gucci che rispondono alle difficoltà aguzzando l´ingegno e inventano un´icona immortale come la borsa "bambù". Ma è dai favolosi anni Sessanta che le creazioni della casa di Firenze entrano nell´empireo dello stile contemporaneo. Consacrate da celebrità come Grace Kelly, Liz Taylor, Samuel Beckett e Peter Sellers, le borse Gucci approdano alle prestigiose teche del Moma. Sono gli anni in cui la doppia G intrecciata diventa uno degli emblemi dell´eleganza all´italiana.
Persino il demenziale sceriffo nero di Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks indossa un improbabile cinturone firmato Gucci. Un paradosso che testimonia come il marchio fiorentino sia diventato un logo senza luogo. E senza tempo. Che funziona a Place Vendôme come nel selvaggio West.
E se Firenze con il suo antico patrimonio di saper fare è all´origine dell´impero Gucci, per le stesse ragioni è stata il trampolino di Salvatore Ferragamo, il mago delle scarpe. Nato a Bonito, un paesino dell´Irpinia, e emigrato in America nel 1915 a diciassette anni. In poco tempo il suo talento tutto italiano incontra l´arte tutta americana del cinema. E dagli stivali dei cow boys ai calzari degli imperatori romani la Mecca della celluloide vuole ai suoi piedi solo Ferragamo. Rodolfo Valentino, Gloria Swanson, John Barrymore jr., Greta Garbo affollano l´Hollywood Boot Shop del calzolaio dei sogni. Ma l´ideale di eleganza e di perfezione di Ferragamo obbligano l´emigrante a tornare sui suoi passi. Si trasferisce a Firenze, capitale della pelle, dove il lavoro manuale è un´arte. Nel dopoguerra Ferragamo diventa un simbolo della rinascita dell´Italia, grazie a una serie di invenzioni che rivoluzionano la storia della calzatura. Dai tacchi a spillo rinforzati in metallo per sostenere l´indimenticabile rollio di Marilyn, ai sandali invisibili fatti di filo di nylon, che nel 1947 gli valgono il Neiman Marcus Award, l´Oscar della moda. Il resto è storia di oggi.
Una storia fatta di innovazioni classiche, di rivoluzioni tradizionali, di utopie concrete. Ossimori del Made in Italy che riesce sempre a intessere il futuro usando il filo forte del passato. Perché solo chi ha respirato bellezza anche senza saperlo, chi ha mangiato sin da bambino pane stile e fantasia può immaginare abiti che hanno il futuro dentro, che danno forma a nuove abitudini. Come ha fatto Giorgio Armani che ha destrutturato la giacca e insieme ha decostruito il maschile. Una doppia rivoluzione che lo consegna non solo alla storia della moda, ma anche a quella del costume. Come il più moderno fra i classici e il più classico fra i moderni. Di fatto il grande stilista di Piacenza ha creato un uomo nuovo, liberando l´eleganza maschile da quella cerimonialità impettita da manichini ingessati. Prigionieri di se stessi. In doppio petto anche di notte.
Emancipando il maschio Armani ha cambiato di conseguenza anche l´immagine della donna, facendo affiorare la forma complementare che unisce l´uno all´altra. Quell´androginia sinuosa e sensuale che è in realtà il comune denominatore geometrico tra i due generi. proprio l´esprit de géométrie la forza di Giorgio Armani, la misura che gli consente di trovare la bellezza nella semplicità assoluta, nella sobrietà estrema, nei non-colori. Il suo grigio ineffabile dai toni zen. O il nero lampeggiante che ricorda gli abiti delle contadine di Scanno immortalate da Cartier Bresson. Questo talento del decostruzionismo ha dato alla moda i caratteri profondi del presente: flessibile, easy, metropolitano. Come la souplesse di Eric Clapton, il fascino di Richard Geere, l´understatement di Sean Connery. Tutti uomini Armani. E dunque testimonial dell´eleganza italiana. Fatta di una sprezzatura signorile da antico regime che mostra di trovarsi sorprendentemente a suo agio nella tarda modernità. Al punto da giocare spericolatamente con il kitsch uscendone vittoriosi e immacolati, come fanno Dolce e Gabbana. O da permettersi di usare materiali incongrui, come il nylon dei paracadute reso glamour da Miuccia Prada con una elegante irriverenza da baroni rampanti.
Tutto questo sarebbe impossibile senza un buon gusto di lunga durata, un istinto del bello quasi rabdomantico. Ancorato, anche senza mostrarlo, alla storia sartoriale italiana, quella che Ciro Paone, patron del marchio Kiton, porta nel mondo dal 1968, con ostinata devozione alla scuola napoletana del capo spalla.
Nel laboratorio di Arzano, alle porte di Napoli, trecento sarti, suddivisi in gruppi di lavoro ad altissima specializzazione cuciono, rigorosamente a mano, i completi più esclusivi del mondo. Cinquanta pezzi unici al giorno, non ne esistono due uguali. Abiti per iniziati, li ha definiti il New Yorker. I santuari planetari dell´eleganza, dal bostoniano Louis al newyorkese Bergdorf Goodman si contendono queste Ferrari dell´abbigliamento stirate con ferri di inizio secolo e inumidite con l´acqua di una sorgente locale. così che la tradizione italiana della bella figura diventa aristocrazia del business.