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 2009  agosto 22 Sabato calendario

 UN PAESE DI PAROLE

L’«ordine delle parole», scriveva Nicola Zingarelli nella Prefazione al suo Vocabolario della lingua italiana (1922), altro non è per l’uomo se non un modo di «mettere ordine e legge e carattere di immanenza ed eternità al vortice della sua vita». Oggi, si sa, l’ordine in un dizionario è quello semplicemente alfabetico, ma molte raccolte lessicali del passato ambivano alla ricostruzione metodica dell’Ordine del Mondo.
Nella Fabrica dell’Alunno (1543) le parole sono disposte per famiglie fondamentali: partendo da Dio si passava a Cielo, Mondo, Elementi, Anima, Corpo, e si arrivava a Inferno. Anche nella cinquecentesca Tipocosmia del veneto Alessandro Citolini si forniscono lunghi elenchi lessicali divisi per materia, raccolti come «alberi» del sapere, allo scopo di creare un ordinamento dello scibile.
Il vocabolario moderno, quale noi lo conosciamo, è invece un prodotto linguistico-letterario che si sviluppa con intenti più pratici. Scrive Claudio Marazzini, nel suo densissimo libro L’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani, che in certo senso «il dizionario potrebbe essere interpretato come uno dei risultati della regolamentazione delle lingue nazionali, anzi l’espressione compiuta del raggiungimento del loro equilibrio normativo».
Marazzini è un sapiente linguista e un amoroso bibliofilo. Riesce per queste sue doti a farci compiere un lungo affascinante viaggio, sino ad ora non ancora tentato, dalla preistoria del vocabolario (i primi glossari medievali) ai dizionari odierni, senza dimenticare gli ultimi passaggi dalla carta al computer (non esiste oggi vocabolario importante che non sia corredato di supporto elettronico) e ai dizionari in linea (come la grande impresa del TLIO, un vocabolario storico di tutte le varietà dell’italiano antico, in corso di realizzazione sotto la guida di Pietro Beltrami).
Siamo stati noi italiani a inventare questo oggetto utile e bello (ingombrante anche). Il primo grande Vocabolario europeo è quello degli Accademici della Crusca (1612), una delle nostre glorie. Desta ammirazione in Italia e all’estero, ed è di esempio per gli altri. prodotto in un Paese dove è nata la filologia, in un Paese di grammatici incalliti. Ma nasce da noi soprattutto perché, come dice Marazzini, l’Italia «ha avuto tardi la nazione politica» per cui «il vocabolario, come la grammatica e come la grande tradizione letteraria, ha tenuto il posto di collanti sociali che in altre nazioni dell’Europa tardo-medievale e moderna erano di natura politica».
Mentre la grammatica è un’eredità antica, il vocabolario prende forma e vigore con l’affermarsi delle lingue nazionali, nella fase della loro regolamentazione normativa. L’idea del Vocabolario era nata nel pieno del classicismo rinascimentale, quando si era convinti che la lingua dei grandi scrittori del Trecento, con Dante, Petrarca, Boccaccio, aveva toccato il suo culmine «aureo», raggiunto le vette della perfezione. Un vocabolario doveva rifarsi a quei modelli, ma nasceva soprattutto come una necessità. Occorreva, dopo le secolari incertezze, fissare una «norma», mettere a freno le oscillazioni che nello scrivere sussistevano tra regione e regione. Per riuscirvi, il Vocabolario, diversamente da quanti oggi si stampano, doveva guardare al passato, non al presente. Era l’unica soluzione ragionevole. Fino a quel momento chi scriveva aveva delle grandi incertezze di lessico e di grafia. Bisognava trovare un punto fermo, e dunque il riferimento non poteva che andare ai modelli del passato.
Il viaggio di Marazzini non percorre soltanto queste strade maestre. Compie soste meno note. Indugia per esempio intorno al Vocabolario cateriniano del Gigli, il caso più noto di un intervento di censura su un dizionario, che certo si era mostrato spregiudicato nell’attacco al fiorentino, alla sua pronuncia, tant’è che lo stesso duca di Toscana Cosimo III chiede a Roma una punizione esemplare, Gigli non solo è cacciato dalla Crusca, ma bandito da Roma, e alcuni esemplari del suo vocabolario, cioè le pagine già stampate, bruciate al suono della campana del Bargello: l’autore, costretto a pubblica ritrattazione, si riduce in miseria, riuscendo tuttavia a terminare l’opera, stamparla a Lucca nel 1720 con falsa indicazione di «Manilla nell’Isole Filippine».
Il libro di Marazzini si ferma a lungo intorno all’interesse per i vocabolari che si manifesta nel Settecento, e soprattutto nell’Ottocento, il secolo d’oro della lessicografia, del purismo e dell’antipurismo. Qui si segnalano alcuni tra i tanti contributi maggiori del libro: innanzitutto, il capitolo dedicato ai vocabolari dei sinonimi, alla loro grande fortuna anche scolastica, quando diventano strumento adottato per insegnare l’italiano; in secondo luogo l’attenzione riservata agli utenti dei dizionari, le puntigliose analisi sulla loro fortuna e diffusione concreta, ristampe, aggiornamenti. Non ultimo tra i meriti, il rapporto che lega vocabolari e scrittori, Manzoni, D’Annunzio, Faldella e il suo Zibaldone, gli Appunti di lingua di Pavese.