Alberto Papuzzi, La stampa 22/8/2009, 22 agosto 2009
IN QUEL MARE DI NEVE LO SPECCHIO DELL’ITALIA OPERAIA
L’Italia delle mitiche Grandes Jorasses – lo stupefacente ammasso di ghiaccio e roccia nel Gruppo del Bianco che tutti gli alpinisti sognano di scalare – è un’Italia operaia, è un’Italia coraggiosa, con le facce da morti di fame dei tre alpinisti che le conquistano.
E’ l’agosto del 1938 e le Jorasses sono l’ultimo problema della corsa nazionalistica alle cime e alle pareti più severe dell’arco alpino. Giusto tre anni prima due giovani e spavaldi tedeschi, Martin Mejer e Rudolf Peters, violano la Nord per lo sperone Croz, facendo la barba a scalatori molto più quotati che da tempo erano in lizza per assicurarsi la spettacolare parete, che però è stata salita solo per una sua parte. Chi riuscirà a raggiungere per primo la punta Walker attraverso la Nord? Forse i francesi? Oppure i tremendi rocciatori tedeschi della Scuola di Monaco? Ovvero un italiano che è il campione del momento: Giusto Gervasutti, friulano emigrato a Torino, dove lo chiamano «Il Fortissimo»? La competizione è così febbrile e popolare che «La Stampa» manda l’inviato Gonella ai piedi della parete Nord delle Jorasses, per uno scoop alpinistico. Le previsioni si rivelano tutte sbagliate. L’impresa infatti è compiuta da tre rocciatori lecchesi che fino ad allora non avevano mai messo piede sui ghiacci e le nevi delle Alpi Occidentali: Riccardo Cassin, Luigi Esposito, Ugo Tizzoni.
Nelle fotografie che li ritraggono dopo la vittoria, alla fine della discesa, hanno facce da operai della montagna, gente che si fa i chiodi da sé in fabbrica e quando si butta su una parete recupera tutti quelli che usa perché i chiodi costano. Portano romantici cappellacci di feltro al posto dei caschi e hanno le corde di canapa legate all’altezza della vita, altro che le imbragature moderne sempre più sofisticate.
Assomigliano a John Mallory e al suo amico inglese, quando nel 1924 tentano l’Everest con cappotti di lana. Compagnoni e Lacedelli, che nel ”54 salgono il K2, sembrano marziani rispetto all’equipaggiamento di Cassin e soci. Ma costoro non ci pensano su: arrivano, colpiscono e se ne tornano a casa. E’ lo stile Cassin. Uno stile asciutto e antiretorico che fonda il mito delle Jorasses, e ne fa la meta agognata degli scalatore.
Non bisogna dimenticare che questa montagna è il paradiso del misto, cioè delle scalate in cui bisogna cavarsela contemporaneamente con il ghiaccio e con la roccia. Scalate fatte per gente dura, che sa soffrire. E’ vero che il rifugio più battuto della zona è dedicato a Boccalatte, l’amico pianista di Mila, che arrampicava con la delicatezza d’un free-climber; ma è anche vero che oggi sulla paretona sono disegnate decine di vie (anche di Bonatti) da salire con le nuove arcuate piccozze, attrezzi fantascientifici che tengono anche sulle rughe rocciose, impegnando gli scalatori in vere acrobazie lunari.
Tuttavia in fondo al cuore di chi si avventura in quel mare di cristallo restano le facce dei tre operai della roccia. Usciti dal nulla o quasi per diventare portatori di un’idea che smuove gli alpinisti: chiunque ce la può fare. Idea che la Nord delle Jorasses custodirà come in una tomba, visto che causa il temuto crollo di quarantamila metri cubi di ghiaccio verrà vietata (come la Brenva o come la Poire).