Sandro Modeo, Corriere della Sera, 24/8/2009, 24 agosto 2009
DI CORSA FUORI DALLA PREISTORIA E DENTRO IL FUTURO
«Il vento che soffia dal futuro» – per riprendere Walter Benjamin – porta con sé le profondità dell’arcaico. L’emozione trasmessa dalla corsa di Usain Bolt sembra risalire, con la sua sintassi armoniosa e potente, fino a un momento cruciale della nostra storia evolutiva, quando il genere Homo – portando a compimento il passaggio degli ominidi precedenti, ibridi tra locomozione arboricola e terrestre – si erge definitivamente nella postura bipede.
un processo cominciato in Africa più di 5 milioni di anni fa. Per vedere meglio prede e predatori nella savana e aumentare la mobilità in spazi vasti, l’anatomia e la morfologia dell’Homo mutano il quadro osteo-muscolare (colonna vertebrale, femore, ginocchia, piedi, il «grande gluteo»), quello circolatorio (con un sistema venoso in grado di migliorare la vasodilatazione e la dispersione di calore) e quello alimentare (passando a una dieta carnivora più ricca di proteine): il tutto sinergico a cambiamenti nel sistema dell’equilibrio (il vestibolo) e della percezione del sé cinetico (il cervelletto) in grado di orchestrare il nuovo rapporto del corpo con la gravità.
Il paradosso è che tutto questo rimane in parte incompiuto, facendo di noi dei «bipedi barcollanti» (come dimostra una banale lombo-sciatalgia), anche se ha prodotto effetti collaterali come la liberazione delle mani, base del salto tecnologico. E quanto alla corsa – nonostante certi fattori predisponenti, come l’espansione delle superfici articolari inferiori e la relativa distribuzione dell’energia – è solo un «adattamento secondario» (una delle possibili opzioni di movimento). Eppure, a vedere Bolt, sembra che ci siamo evoluti solo per correre. Certo, ci sono in lui fattori genetico-ambientali (più ambientali) decisivi: Bolt è solo l’ennesimo fuoriclasse giamaicano (cioè erede di africani occidentali sopravvissuti all’olocausto schiavista), non è il primo del distretto «ribelle» dei maroons di Trelawny (dov’è nata anche la Campbell) e non è il primo giamaicano alto (il grande Arthur Wint, oro dei 400 a Londra ”48, era alto quanto lui). Ma nessuno aveva mai portato la specie a questa unicità biofisica. Fulmine già nel nome – o freccia, o proiettile, come nei suoi stilizzati rituali visivi – spinge la fisiologia del Pliocene nella dimensione di Supereroi come Flash, il cui simbolo è proprio il fulmine. Come Flash, Bolt – rispetto agli altri – sembra non tanto correre, quanto spostarsi da una regione spaziotemporale a un’altra. E questo sia perché l’ampiezza della sua falcata e il numero ridotto di passi (nei 100 metri 41, contro i 44 degli altri) conferiscono alla sua azione una fluidità inedita, sia perché la sua forza gli permette di «sospendere» l’attrito, crescente al crescere della velocità.
Vedere correre Bolt è un’esaltazione carica di pedagogia: una lezione su Darwin e Einstein, in meno di 10 (o di 20) secondi.