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 2009  agosto 23 Domenica calendario

Se c’è uno che ha pochi dubbi su come andrà a finire la guerra con i taleban è lui, il generale pakistano Ahmed Gul

Se c’è uno che ha pochi dubbi su come andrà a finire la guerra con i taleban è lui, il generale pakistano Ahmed Gul. Alto, magro, la pelle scura, e ancora dritto come solo un militare di carriera sa essere, il generale non è però un giurato imparziale, perché dei taleban lui è il padre, l’inventore, il primo finanziatore, e il loro primo armiere. Li creò quando - a metà degli Anni 90 - comandava i servizi segreti pachistani e, avuta notizia di questo gruppo di giovani studenti d’una scuola coranica della provincia di Kandahar, che si mostravano capaci di portare ordine nel nome di Allah, contenendo a suon di fucilate lo strapotere e i soprusi dei signori della guerra, scelse di puntare su di loro per farne lo strumento diretto del condizionamento strategico di Islamabad sull’intero Afghanistan. Fece in modo che, «casualmente», quel centinaio di giovanotti guidati da un mullah orbo e invasato di nome Omar (che l’occhio l’aveva perduto nella guerra contro i sovietici), trovasse nelle montagne di Kandahar un gigantesco e «anonimo» deposito d’armi e li trasformò in un vero esercito, senza divisa certamente e però con una forza d’urto irresistibile, grazie alla fede mistica che li segnava e li invasava. I taleban («seminaristi») a quel tempo erano una banda ogni giorno più folta che si mostrava come una qualche armata Brancaleone d’Oriente, ma in realtà era compatta e omogenea, tutti pashtun del Sud afghano, tutti misticamente segnati dall’appartenenza ad Allah, tutti indifferenti alla morte che li avrebbe portati nel paradiso della loro fede. Era questo che li faceva imbattibili, capaci di sconfiggere gli scalcagnati eserciti dei «signori della guerra» locali. Alla fine, tuttavia, la loro arma vincente, quella che diede loro a poco a poco, di vallata in vallata, il controllo dell’intero Afghanistan fu il principio di stabilire un rigido ordine sociale e politico là dove prima dominavano l’insicurezza, la corruzione, lo stupro, i rapimenti, gli abusi. I taleban portavano la pace sociale, ch’era una pace basata sulla sharia e sul ritorno mistico al Medio Evo, ma era comunque la pace; e in una società arcaica e tradizionalista questa garanzia era vincente sulla paura e l’angoscia quotidiane. Quando i B-52 americani li sconfissero, nel novembre 2001, i taleban si divisero in tre gruppi. Uno se ne andò alla macchia dietro Omar e il fantasma di Bin Laden, un altro (più sparuto) consegnò le armi e si fuse con il nuovo potere del pashtun Karzai, il terzo si ritirò e si mimetizzò tra la gente dei villaggi del Sud e del Sud-Est, protetti dal codice d’onore tribale che condanna il tradimento degli ospiti del villaggio. Il nuovo potere che s’installò a Kabul non ebbe mai la forza di allargare il proprio controllo al di là della capitale, per troppa corruzione e troppi pochi dollari da investire nel crearsi alleanze locali, e nel tempo l’insofferenza per la presenza oppressiva dei soldati stranieri, i kafir invasori, si è andata mescolando con l’insofferenza per i soprusi e gli abusi che i signorotti locali avevano intanto ripreso a praticare ovunque, impuniti, impunibili, sugli stenti della vita quotidiana. Le centinaia, e poi migliaia, di morti ammazzati dai bombardamenti indiscriminati degli americani hanno riacceso il «nazionalismo» afghano - tre guerre aveva combattuto l’Impero britannico in Afghanistan, e tre volte si era dovuto ritirare sconfitto - e hanno ricostituito quel brodo di coltura nel quale progressivamente è germinata la nuova offensiva taleban, collegata e fusa con quel secondo gruppo di ribelli che si erano rifugiati sulle montagne con il mullah Omar e avevano intanto continuato la loro guerra. Oggi i taleban non sono più un «esercito» compatto e ordinato, ma piuttosto una galassia di formazioni mistico-militari che - pur nel comune obiettivo strategico di scacciare l’invasore ateo - hanno un legame molto lieve con un ipotetico comando centrale, e si muovono con sufficiente autonomia, legati tatticamente alla singola realtà dei villaggi nella cui vita quotidiana si fondono. Così ci sono aree taleban nelle quali - alla maniera vecchia - la musica è proibita, e altre dove invece è permessa; e ci sono aree dove le ragazze non possono andare a scuola, e altre in cui il Consiglio degli anziani ammette questa «modernità». Ci sono aree, e comandanti, radicali, per esempio Jalaluddin Haqqani che ha importato gli shaiid suicidi («I nostri B-52», dice), ed è sicuramente collegato con Al Qaeda, e però aree, e comandanti, riformisti, negoziatori, come il mullah Brehadar, che predica l’intendimento con i «kafir invasori» per ottenere la loro partenza dall’Afghanistan. Gul si è mostrato sempre sicuro: «Vinceranno i taleban. Quando l’Armata Rossa tentò la conquista dell’Afghanistan, in una battaglia sulle montagne i mujaheddin catturarono quattro soldati russi e li scuoiarono come capretti. L’Armata Rossa si è dovuta ritirare dall’Afghanistan, e i taleban sono gli eredi di quei mujaheddin della montagna. Io lo so come finirà questa guerra».