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 2009  agosto 21 Venerdì calendario

Il Paese africano Gulag, fame e repressione Eritrei in fuga dal tiranno I 78 eritrei – di cui solo cinque ar­rivati salvi in Italia – sono scappati dall’inferno, dove le violazioni dei di­ritti umani sono quotidiane

Il Paese africano Gulag, fame e repressione Eritrei in fuga dal tiranno I 78 eritrei – di cui solo cinque ar­rivati salvi in Italia – sono scappati dall’inferno, dove le violazioni dei di­ritti umani sono quotidiane. Assieme alla Guinea Equatoriale, l’Eritrea è og­gi governata dalla dittatura più rigida e repressiva di tutta l’Africa. Il presi­dente Isayas Afeworki ha militarizza­to il Paese, comanda con il pugno di ferro e sembra ossessionato dalla guerra. Ha attaccato quasi tutti i vici­ni: l’Etiopia, Gibuti e lo Yemen. Secon­do le Nazioni Unite protegge, finanzia e addestra i ribelli islamici in Soma­lia. L’uomo che negli anni 80 veniva applaudito come un combattente per la libertà, una volta al potere si è rive­lato uno spietato tiranno. Il suo Paese è ridotto alla fame. I negozi sono vuo­ti; il carburante è razionato. Ecco come Amnesty International dipinge l’ex colonia italiana sul Mar Rosso: «Il governo ha vietato i giorna­li indipendenti, i partiti di opposizio­ne, le organizzazioni religiose non re­gistrate e di fatto qualsiasi attività del­la società civile. All’incirca 1.200 ri­chiedenti asilo eritrei rimpatriati for­zatamente dall’Egitto e da altri Paesi sono stati detenuti al loro arrivo in Eritrea. Migliaia tra prigionieri di co­scienza e politici sono rimasti in de­tenzione dopo anni in carcere. Le con­dizioni delle prigioni sono risultate pessime. Coloro che venivano perce­piti come dissidenti, disertori e quan­ti avevano eluso la leva militare obbli­gatoria o altri che avevano criticato il governo sono stati, assieme alle loro famiglie, sottoposti a punizioni e ves­sazioni. Il governo ha reagito in mo­do perentorio contro qualsiasi critica in materia di diritti umani». I cittadini eritrei nella loro stessa patria sono sottoposti a restrizione nei movimenti. Spie e polizia sono ovunque. Come in Corea del Nord il partito controlla ogni cosa: la attività economiche e la vita quotidiana, fatta di continui sospetti anche all’interno di una stessa famiglia. I giovani eritrei fuggono perché la loro unica prospettiva è finire a Sawa, un enorme e durissimo centro d’addestramento reclute. Chi entra è sottoposto a un vigoroso lavaggio del cervello che insegna a sospettare «dei nemici della rivoluzione e del popo­lo ». La leva militare non ha durata fis­sa. Si può restare sotto le armi anche anni. Secondo alcuni siti eritrei il 13 ago­sto Isayas ha subito un tentativo di as­sassinio, sventato dalle sue guardie del corpo che hanno ammazzato sul posto l’attentatore. Il 18 settembre 2001 sono scompar­si in un gulag eritreo tredici ministri – tra cui l’eroe della rivoluzione Pe­tros Solomon – che avevano firmato un manifesto per chiedere democra­zia e libertà. Sono finiti chissà dove e forse mor­ti. Giornalisti stranieri che hanno «osato» cri­ticare il regime, sono stati ripagati con una condanna a morte in contumacia. Isayas Afeworki viene spesso in Italia, anche in visita privata. Nessuno lo tratta da tiranno, piuttosto da amico. Non ri­cambia la cortesia e taglieggia in con­tinuazione i nostri connazionali che vivono in Eritrea o hanno ancora inte­ressi laggiù. I rifugiati in Italia hanno paura: per sé o per i parenti restati in patria. Ci sono stati casi di palesi aggressioni. L’ultima in ottobre a Roma quando al festival eritreo militanti regolarmen­te autorizzati che distribuivano volan­tini di Amnesty International sono stati presi a pugni, calci e bottigliate. Massimo A. Alberizzi