La Stampa, 21/8/2009, 21 agosto 2009
I trafficanti di uomini in cerca di nuove rotte - Luglio 2009. Parlano al telefono due trafficanti di «carne umana»
I trafficanti di uomini in cerca di nuove rotte - Luglio 2009. Parlano al telefono due trafficanti di «carne umana». Uno è un tunisino che si trova in Libia, l’altro è un suo uomo: «Mi raccomando... non avvertite l’Italia...». Scampoli di conversazioni captate che raccontano la paura, la difficoltà di sfidare le forze di polizia libiche che via terra e via mare impediscono ormai da tre mesi che il flusso di clandestini raggiunga il nostro Paese. E confermano che il dispositivo messo in atto da Roma e Tripoli si è trasformato effettivamente in un deterrente che paga. Si possono discutere le modalità di come si sta realizzando quello che un alto dirigente del Viminale definisce «un abbattimento colossale dell’immigrazione clandestina». Ma la sostanza è questa: dalla primavera non arrivano più le flotte di imbarcazioni dalla Libia, e nelle ultime settimane anche i flussi di extracomunitari che approdavano sulle coste adriatiche si sono prosciugati (non arrestati del tutto): ieri a Brindisi, in un tir sbarcato dalla Grecia, dopo che era stato abbandonato sull’asfalto il corpo senza vita di uno di loro, sono stati trovati nel rimorchio 17 iracheni e curdi. Al Viminale raccontano che sta pagando la politica del «muso duro», dello «scoraggiare i clandestini a pagare i trafficanti che dovrebbero garantire il loro approdo in Italia». E questa politica si sta traducendo anche in un diverso atteggiamento di Malta, che adesso non lascia più le imbarcazioni alla deriva, scaricando sull’Italia l’onere di prestare soccorso agli extracomunitari. «Certo qualche imbarcazione può sfuggire ai controlli, ma stiamo parlando di poche unità di persone. Succede anche - spiegano al Viminale - che qualche clandestino lo troviamo sui pescherecci che rientrano a terra. Ma è un fenomeno del tutto risibile». I flussi si sono arrestati anche per una rinnovata intesa con i paesi dell’altra sponda del Mediterraneo (accordi con la Libia, Nigeria, Algeria), per cui chi arriva in Italia torna a casa e, naturalmente, perché con l’entrata in vigore della legge sulla sicurezza, i tempi di detenzione nei Cie sono passati da due a sei mesi. Consentendo così la possibilità di una effettiva identificazione degli extracomunitari non in regola per poi procedere alla loro espulsione. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, nella conferenza stampa di Ferragosto, ha assicurato che le proteste che sono esplose nei vari Centri di identificazione ed espulsione sono «sotto controllo». Un messaggio chiaro: le proteste non modificano di una virgola la politica del «muso duro» contro gli extracomunitari. Mentre sta partendo la «sanatoria» per le badanti, sul fronte si sta combattendo una guerra senza esclusione di colpi. Da maggio sono in azione le tre motovedette italiane che operano nelle acque territoriali libiche. A bordo con il personale libico ci sono due «osservatori» italiani. Le motovedette sono posizionate ai limiti delle acque internazionali e perlustrano quattro, cinquecento chilometri di costa dai confini con la Tunisia a Misurata. Secondo dati ufficiosi, finora sono stati riportati a terra più di mille extracomunitari. Che vanno a riempire fino all’inverosimile i Centri di detenzione libici. «La situazione è critica - conferma da Tripoli Laurence Hart, capo missione della Iom, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni - anche dal punto di vista sanitario ed igienico. Abbiamo segnalazioni di tentativi di evasioni di massa». Da alcuni giorni, il blog «Fortress Europe» denuncia che in un Centro di detenzione libico, quello di Ganfuda, Bengasi, una ventina di somali sarebbero stati uccisi delle forze di polizia libiche, dopo un tentativo di evasione di massa, una cinquantina i feriti e una decina gli scomparsi. Per il direttore del Cir, «Consiglio italiano per i rifugiati», Cristopher Hein, «nel Centro di Bengasi è scoppiata una rissa sedata dalle forze di polizia. Ci sono stati feriti ma non risultano morti». /