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 2009  agosto 21 Venerdì calendario

RITRATTO DI DINO DE LAURENTIIS PER VOCE ARANCIO


«Sono convinto che la vita vada affrontata con ironia. Senza paura. Ho sempre messo me stesso in tutto quello che ho fatto. Non tutto mi è riuscito. A volte ti senti come quando esci dallo stadio e la tua squadra ha perso. Ma altre volte, quando meno te lo aspetti, è come vincere i mondiali».

Agostino De Laurentiis, detto Dino, è nato l’8 agosto 1919 a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, padre proprietario di un pastificio, madre titolare di un negozio di farine, sei tra fratelli e sorelle. «Mio padre a un certo punto ebbe bisogno di un rappresentante per il pastificio. Mi guardò negli occhi: ”Tu”. ”Ma papà”, risposi, ”io non ho mai venduto. E dove dovrei andare?”. ”Nelle isole, cominciando da Ischia e Capri”. Fu il primo impatto con Capri. L’isola mi impressionò, e da allora ci sono sempre tornato».

Film prodotti da De Laurentiis: 600 circa (neanche lui lo sa con precisione).

A 19 anni fece domanda per entrare al Centro Sperimentale di Roma come attore e venne accettato. Il racconto della sorella Raffaella, detta Lina: «Eravamo tutti attorno al grande tavolo della cucina per il pranzo, nostra madre Giuseppina, Don Aurelio e noi sette figli. Calcolate che a quei tempi avere un figlio attore era come avere una figlia prostituta. Noi lo sapevamo e avevamo paura per Dino. Mamma a un certo punto dice sottovoce ”Aurelio, tuo figlio Dino vuole fare l’attore”. Silenzio assoluto, i cucchiai a mezz’aria. Poi papà si alza, va da Dino e gli dice: ”Io penso che tu sia un folle, però non voglio che dopo la mia morte i miei figli abbiano a dire che non gli ho permesso di fare della loro vita quello che vogliono. Ma ricorda, ti manterrò solo per un anno”».

I primi tempi Dino si arrangiò facendo di tutto, il trovarobe, la comparsa, l’attore generico. «Insomma la gavetta, quella dura. Poi, sul set di Mario Camerini che stava girando Batticuore, conobbi Peppino Amato e riconosco che per me è stato un grande maestro. Da lui ho capito che, dalla prima star all’ultimo falegname, tutti nascondono un tesoro, il produttore deve avere la pazienza di capirlo e saperlo tirar fuori».

Abitudini mattutine di De Laurentiis (che rispetta tutt’ora): sveglia alle 5, caffè e mezz’ora di ginnastica.

Nel 1941 fondò la Real Cine e nel 1942 arrivò il primo film di successo, L’amore canta: «Avevo 22 anni e non una lira in tasca perché mio padre mi aveva tagliato i fondi. Volevo cominciare a produrre un piccolo film. Andai in una banca ed esposi il mio piano al presidente del ramo dei finanziamenti. Mi disse: ”Buona idea, riempia un modulo e scriva quanti soldi metterà lei come partner collaterale”. Gli risposi: ”Ma io non ho una lira proprio. Vi posso dare come garanzia la mia faccia. Se le piace, mi dia i soldi, altrimenti addio”. Dopo una settimana mi richiamò e disse: ”Nessuno mai mi aveva proposto la sua faccia come scambio monetario. Però, siccome il suo viso mi piace, sono disposto ad aiutarla”».

Nel 1942 passò alla LuxFilm e realizzò Malombra con Soldati. Poi arrivò la guerra. «Mi rifugiai a Capri dal mio amico Mario Soldati. E finalmente, alla liberazione, tornai a Roma. Eravamo di nuovo tutti insieme, vecchi e giovani, De Santis, Camerini, De Sica, Rossellini, pronti a ricostruire, a ricominciare. C’era una povertà desolante, Cinecittà era occupata dagli sfollati, avevamo pochissima pellicola, si girava per strada, senza attori, con la gente scelta dal marciapiede. I critici lo chiamarono ”Neorealismo”, ma quello era il cinema della fame. Eppure quel nostro cinema conquistò il mondo».

Negli anni del dopoguerra lavorò ancora per la Lux insieme a Carlo Ponti («Mordevo il freno, non mi sentivo del tutto libero. Alla Lux ero a stipendio, non ero un produttore nel senso completo della parola»). In questo periodo nacquero Roma citta aperta, Sciuscià, Paisà, Ladri di biciclette ecc. «Quei film lanciarono il nostro cinema nel mondo e fecero capire agli americani che il loro sistema produttivo era sbagliato. Lo hanno detto e ripetuto Spielberg, Pollack e Scorsese: ”Abbiamo imparato da voi”. Fu un momento magico: Hollywood rischiò di perdere il primato».

Nel 1949 ci fu Riso Amaro e l’incontro con Silvana Mangano: «Avevamo un copione di Peppino De Santis, il regista, ma non riuscivamo a trovare la protagonista femminile. Disperati, io e Peppino camminavamo per via Veneto. Alzando gli occhi vidi un manifesto elettorale. C’era una ragazza selvaggia, aggressiva e composta allo stesso tempo. Una bomba. Eccola là, dissi, è lei. La cercammo e lei non voleva neanche fare l’attrice. Fu suo padre a convincerla. La nostra storia d’amore è iniziata dopo che il film è finito».

La cosidetta Hollywood sul Tevere fu agevolata da una legge voluta da Andreotti che diceva che un film per essere italiano doveva avere almeno il cinquanta per cento di personale italiano. De Laurentiis portò così a Roma star come Clint Eastwood per gli spaghetti-western o Audrey Hepburn per Guerra e Pace.

«Ponti e De Laurentiis producono Guerra e pace. Ponti ha letto il primo volume, De Laurentiis il secondo» (battuta che circolava nei caffè di via Veneto).

Nel 1952 produsse Totò a colori, la prima pellicola italiana completamente a colori. Girato con il sistema Ferraniacolor, durante una scena la parrucca di Totò cominciò a fumare a causa delle luci troppo forti.

Nel 1964 creò sulla via Pontina Dinocittà, 25 ettari di studios, dove allestì fra l’altro La Bibbia. Costo: 60 miliardi di lire. Tullio Kezich: «Fu il sogno di un megalomane. Ma il suo sforzo fu contrastato da una legislazione per cui le megaproduzioni in lingua inglese non potevano più ottenere i benefici derivanti dal riconoscimento della nazionalità italiana, come accadde per Waterloo. Così è crollato il sogno di Dinocittà, che oggi è un ammasso di rovine».

A proposito del kolossal sulla Bibbia, costato 15 milioni di dollari nel 1966: «Una mattina in un albergo a New York mi sveglio all’alba e non ho niente da leggere. Apro un cassettino e trovo una Bibbia. Io non la conoscevo. Comincio a leggere ”sta Bibbia. Cavolo, mi dico, qui ci sono dei film straordinari. E mi è nata l’intuizione. Mi han dato del pazzo e del folle. Lo stesso dicasi per Guerra e pace. Che fa De Laurentiis: si mette a girare Tolstoi? Per questo sono una star, se mi è permesso dirlo. Decido mentalmente, mi prendo responsabilità, azzardo e ho dato dimostrazione di aver avuto naso, mi sembra».

Quella volta che Dino De Laurentiis consigliò a Miranda Orfei di cambiare il proprio nome in Moira e di tenere sempre la stessa acconciatura: «Non cambiarla mai, ché le donne che cambiano spesso non hanno personalità».

Vita privata: primo matrimonio nel 1945 con Bianca De Paolis. Secondo matrimonio nel 1951 con Silvana Mangano, da cui ha avuto i figli Veronica, Raffaella, Federico (morto in un incidente aereo in Alaska) e Francesca. Nel 1990 si è sposato per la terza volta con Martha Schumacher, da cui sono nati Carolyna e Dina.

«Dino era gelosissimo. Perciò non ho mai recitato col giovane Mastroianni» (Silvana Mangano).

La partenza per gli Stati Uniti nel 1972, il primo film prodotto oltreoceano nel 1973, Serpico, diretto da Sidney Lumet: «Io ero terrorizzato: che ci faccio qui, non conosco la lingua, non conosco i loro gusti, come mi muovo? Tutto dipendeva dal primo film, se imbrocco quello, mi dissi, è fatta. Chiamai Peter Maas, un autore dal quale avevo già acquistato i diritti di Joe Valachi-I segreti di Cosa nostra: ”Ho bisogno di una storia”, gli dissi. ”Sto scrivendo un nuovo libro, ma ho già pronto solo il primo capitolo”, rispose. Pretesi che me lo mandasse. M’intrigò quel personaggio e comprai Serpico a occhi chiusi. Maas pretese un capitale, cinquecentomila dollari, cinque milioni di euro di oggi, ma quel film fece la mia fortuna. Poi arrivarono I tre giorni del Condor, un cult. A quel punto ebbi qualche certezza: ok, posso fare il produttore americano».

In America alterna grandi successi (Il giustiziere della notte, L’anno del dragone, King Kong ecc.) a qualche flop (Dune, Tai Pan e Ore disperate).

Tra le imprese meno riuscite negli Usa l’apertura a New York e Los Angeles di cinque Foodshow, una sorta di magazzini extralusso del cibo italiano, perché «gli americani sono un grande popolo ma mangiano da schifo». Aperti tra il 1982 e il 1984, chiudono tutti nel giro di tre anni.

«Si deve smettere di pensare a De Laurentiis solo come il tycoon americano, il produttore di kolossal, il folle avventuriero del cinema, sempre in bilico tra flop e Oscar. Lui ha rappresentato un immenso ponte fra l’Italia e l’America, perché ha portato il lussuoso artigianato italiano a Hollywood e i sistemi dell’industria americana a Cinecittà. questo il suo capolavoro» (il critico cinematografico Gian Piero Brunetta) .

«E ancora dicono che faccio film commerciali. I critici e il cinema non sono mai andati d’accordo. Povero Totò... Grande amico, attore immenso. La critica lo fece a pezzi, lo trattò come un guitto. E La strada? Nessuno voleva farlo. Abbiamo vinto l’Oscar, decine di premi nel mondo. I critici lo condannarono. Così decisi di affittare una sala sugli Champs-Elysées: i francesi impazzirono, critica e pubblico. Il successo de La strada partì da Parigi».

La volta che Dario Argento andò da lui per farsi produrre Oltre la morte. «Il film gli fece talmente schifo che mentre mi parlava non toccava neanche il copione con le dita, ma solo con la matita».

Nel 2001 gli è stato consegnato il Premio Oscar alla carriera, nel 2003 il Leone d’oro, intanto ha continuato a lavorare, aiutato dalla figlia Raffaella. Ultimi film prodotti: Red Dragon (2002), L’ultima legione (2007), Hannibal Lecter - Le origini del male (2007). Il prossimo progetto è il sequel di Barbarella: «Il cinema è una droga e una fatica, ma è esaltante. Un giorno costruisci sottomarini e rifai la guerra mondiale, un altro vai indietro nel passato e fai la vita di Alessandro. Ho fatto 600 film, ma ad ogni una nuova idea, mi ci butto con l’entusiasmo e la curiosità del primo».

Da molti anni vive in America e dice, alla vigilia dei suoi novant’anni, che difficilmente riuscirà a tornare nel nostro Paese: «In Italia sono il dottor De Laurentiis e in America ”mister D”, o al massimo ”Dino”. Come Sinatra che era ”Frankie” e basta. Qualcosa significa, no?».