Maurizio Molinari, La stampa 19/8/2009, 19 agosto 2009
L’EX MUJAHEDDIN CHE PARLA L’INGLESE E PIACE AI GIOVANI
L’outsider delle elezioni afghane è Abdullah Abdullah, classe 1960, ministro degli Esteri di Kabul dopo la caduta dei taleban ed ex dottore personale del mitico comandante dei mujaheddin Masud, che fu assassinato dai kamikaze di Al Qaeda poco prima degli attacchi dell’11 settembre 2001.
Sceso in campo un anno fa contro Hamid Karzai, Abdullah scommette le sue possibilità su tre carte: l’identità etnica famigliare, il passato da combattente antisovietico e la proposta di condurre un dialogo «alla luce del sole» con i taleban pronti a voltare le spalle al mullah Omar. L’identità è quella ricevuta dai genitori: il padre pashtun originario di Kandahar, la città del Sud roccaforte dei taleban, e la madre tagika delle tribù del nord gli consentono di trovare ascolto nelle maggiori componenti etniche del Paese. Il passato da combattente contro l’occupazione sovietica è quello che esalta indossando il pakol, cappello tondo di lana emblema dei mujaheddin nei quali si arruolò a metà degli anni Ottanta nel campo profughi di Peshawar, in Pakistan, facendosi largo grazie ad fatto di essere un apprezzato dottore - specializzato in oftalmica all’ateneo di Kabul - fino a diventare il medico personale di Ahmad Shah Masud, il comandante dei mujaheddin dell’Alleanza del Nord che lo volle anche come consigliere politico, trasformandolo poi nel portavoce della resistenza contro l’Armata Rossa. A Masud piaceva il giovane pashtun-tagiko anche per il fatto di essere un poliglotta - è fluente in inglese e francese - e quando alla fine del 2001 l’Alleanza del Nord aiutò le forze armate americane a rovesciare il regime dei taleban del mullah Omar fu il nuovo presidente Hamid Karzai a volerlo come primo ministro degli Esteri.
Abdullah Abdullah in realtà afferma che le cose andarono un po’ diversamente, ovvero che fu lui alla conferenza internazionale di Bonn del dicembre 2001 a fare il nome di Karzai per guidare il dopo-taleban ma ciò che più conta è che i due leader hanno lavorato assieme, dividendosi il compito di dialogare con l’Occidente e rimettere in piedi la nazione. Fino alla rottura politica, avvenuta tre anni fa, quando Abdullah sollevò ripetute obiezioni nei confronti dell’eccesso di tolleranza di Karzai per la dilagante corruzione pubblica che oggi irrita l’amministrazione Obama. Nelle ultime settimane proprio questo è stato il suo cavallo di battaglia elettorale lamentando il fatto che «durante l’attuale presidenza i problemi non sono stati risolti ma si sono ingigantiti». Sostenuto dal Fronte Nazionale, il maggiore partito d’opposizione, Abdullah punta a raccogliere i voti dalle categorie più sofferenti della società afghana. In mente ha anche una riforma dell’amministrazione pubblica, proponendo di far svolgere elezioni locali nelle 34 province e nei 400 distretti in cui è suddiviso l’Afghanistan «al fine di aumentare il sostegno popolare per il governo centrale». Fino ad un mese fa l’amministrazione Usa non ne aveva preso troppo sul serio la candidatura ma poi sono arrivati due sondaggi indipendenti - realizzati da istituti americani - che accreditano la possibilità che riesca a strappare un numero sufficiente di voti a Karzai per obbligarlo ad affrontare il ballottaggio in ottobre, quando la partita potrebbe essere aperta. A rafforzare le speranze di Abdullah c’è soprattutto la folla di giovani e giovanissimi che lo segue ovunque vada.