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 2009  agosto 21 Venerdì calendario

CHI NON HA SUCCESSO UN MALVAGIO


l nostro mondo, che ha decretato la fine delle ideologie, e si ritiene felicemente approdato a una politica (una vita) pragmatica, e post-filosofica, è in realtà nascostamente governato in modo ferreo e dogmatico da una sola grande super-ideologia: l’ideologia del management. questa la tesi centrale di Estensione del dominio della manipolazione di Michela Marzano, giovane filosofa italiana che Le Nouvel Observateur ha indicato tra i pochissimi pensatori oggi veramente influenti.
Il proposito del libro è sorprendentemente semplice e ingegnoso: «dare una lettura filosofica della letteratura manageriale». Marzano esamina in dettaglio una quantità di materiali sulla gestione d’impresa, sull’amministrazione delle «risorse umane», sul coaching. Quel che ne emerge è il ritratto impressionante (e che riconosciamo perfettamente fedele alla realtà) di una società bersagliata da un gioco preciso di seduzione e intimidazione: devi essere libero, devi essere felice, devi gestire la tua vita, devi avere fiducia in te stesso, e soprattutto: devi avere successo.
La logica manageriale penetrata nelle nostre menti e diventata una seconda natura ci dice che chi non ha successo è sicuramente un incapace, forse un malato, e probabilmente anche un malvagio. Primo, ed evidentemente, perché non è stato aiutato da Dio, e dunque non meritava alcun aiuto (riconosciamo qui il lavoro del protestantesimo capitalista). Secondo, perché non è riuscito a integrarsi nella collettività, e questo significa che è un asociale, uno che non ama e non rispetta gli altri. Terzo, perché non è riuscito nemmeno a essere quel che doveva essere, nonostante l’enorme quantità di risorse che il mondo civile mette oggi a disposizione di chi vuole veramente uniformarsi all’imperativo fondamentale dell’«autorealizzazione»: diventa ciò che sei, spingi al massimo le tue qualità.
Ma sviluppare le proprie qualità, essere pienamente quel che si è, erano precisamente la base della ricetta greca per la felicità. Marzano dimostra con illuminante perspicacia che il nuovo «paradigma gestionale» si è appropriato del linguaggio e dei concetti della tradizione filosofica, per usarli al vecchio scopo: ottimizzare la produzione. Al lavoratore viene richiesta «autonomia», ma nei tempi e per gli obiettivi dell’azienda. Le risorse umane vengono «valorizzate», ma all’esclusivo interesse della produzione. Il paradosso della sofistica manageriale e del suo doppio linguaggio è dunque semplice: ci viene imposto di essere liberi e felici, siamo obbligati a essere felici, e se non ci riusciamo è colpa nostra.
Riconosciamo qui il ritratto di quel potere inafferrabile, post-dialettico o ultra-dialettico, di cui ci parlavano Foucault e gli altri neo-strutturalisti. Ma quel che è nuovo nel libro di Marzano è anzitutto la localizzazione del discorso nella letteratura sul management. In un certo senso è come se il linguaggio del potere venisse stanato là dove mira più apertamente a produrre i suoi effetti: là dove non può che esplicitarsi. In secondo luogo nell’analisi di Marzano si vede bene che la filosofia manageriale è penetrata nelle coscienze e l’individuo del duemila si scopre essere il coach di se stesso. Infine è nuovo lo stile: una chiarezza anglosassone viene applicata a far fruttare i contenuti di un’analisi profonda, che prosegue sulla linea tracciata dai maestri europei dello scorso secolo.
Il punto critico, oggi come all’epoca di Adorno, di Foucault e di Deleuze, è che l’emancipazione diventa, a queste condizioni, logicamente impossibile. Che fare? Come possiamo lavorare ancora politicamente se il linguaggio dialettico-filosofico, che nella critica di ispirazione marxista si rivelava l’arma fondamentale contro l’ideologia dominante, è diventato il terreno retorico favorito di un potere sorridente?
Rorty, Vattimo e altri autori hanno pensato di dover mirare anzitutto alla decostruzione della filosofia. Marzano non offre una risposta, ma l’analisi lascia spazio all’ipotesi di una ripresa del discorso critico, che provi a rovesciare il quadro. Forse, se non hai successo come davvero vuoi averlo non è colpa tua, e se chiedi a te stesso quel che chiedono i manager ai propri sottoposti non stai «vivendo pienamente» ma stai bruciandoti la vita.