Cristina Marrone, Corriere della Sera 21/8/2009, 21 agosto 2009
HANS KAMMERLANDER
A un uomo che ha scalato 13 dei 14 Ottomila della Terra e che per primo è sceso dall’Everest con gli sci, dopo aver raggiunto la vetta in solitaria in un tempo record di 17 ore, sono molte le cose che gli hanno cambiato la vita.
Hans Kammerlander ci deve pensare un po’. Successi, delusioni, polemiche, paura. Ricorda la telefonata di Reinhold Messner, quando nel 1982 lo volle al suo fianco per la spedizione al Cho Oyu, un’offerta straordinaria per un ragazzo di 26 anni, che lo lanciò nel mondo degli Ottomila. Ripensa alla tragedia del Manaslu: nel 1992, mentre scendeva dalla montagna dopo aver tentato la vetta, perse i due amici e compagni di scalata. Uno precipitò in un crepaccio, l’altro fu ucciso da un fulmine. Giurò che mai più sarebbe tornato laggiù, e infatti il Manaslu è l’unico Ottomila che non ha mai conquistato. Poi c’è Tzara, la figlia arrivata un anno e mezzo fa, quando forse Hans, a 50 anni suonati, non pensava di ritrovarsi a fare il papà.
«Ma c’è stata una mattina di ottobre, avevo otto anni, che ha davvero cambiato la mia vita, perché da quel giorno ho cominciato a vedere le montagne non come semplici paesaggi, ma come vette da scalare » dice seduto nel suo «quartier generale» all’ultimo piano dell’ufficio del turismo di Campo Tures, in Val Aurina. Accanto a lui c’è il fidato manager Sigi Pircher, che lo segue da 27 anni e gli viene in soccorso quando gli mancano le parole in italiano e vira sul tedesco.
«Stavo trotterellando verso la scuola, ma non avevo gran che voglia. Fui fermato da due passanti, due alpinisti, una donna minuta e un uomo grande e grosso con pantaloni alla zuava, calzettoni rossi e grossi zaini. Mi chiesero ’Siamo sulla strada giusta per il Moosstock?’ Indicai loro la direzione, ma mi accorsi che stavano sbagliando, allora corsi loro dietro per correggere la via. Noi bambini di Acereto avevamo sempre guardato con curiosità e rispetto quella montagna, ma nessuno aveva mai osato scalarla. Quella mattina invece scattò in me il desiderio di raggiungere la cima. Avevo però paura che i due tedeschi mi sgridassero perché marinavo la scuola, così nascosi la mia cartella di cuoio sotto un masso. E li seguii, a distanza, per non farmi vedere, quasi fossi un folletto. A volte ero costretto a mimetizzarmi dietro arbusti o rocce per non farmi sorprendere. Nell’ultima parte di salita però non c’erano più alberi, ma solo pietre, non potevo più nascondermi. Quei due alpinisti mi videro e dissero: ’Dai, vieni con noi!’. Arrivammo in cima tutti e tre. Il Moosstock con i suoi 3.059 metri è stata la mia prima montagna. Ero stanco e affamato. Ma naturalmente non avevo portato nulla con me, e la donna mi regalò una mela, rossa e succosa. Mi sembra di sentirne ancora il sapore. Da quel giorno niente è stato più come prima. Ero con due alpinisti veri, e mi sentivo uno di loro, perché avevamo compiuto la stessa impresa. E sotto di me vedevo per la prima volta il mio paese dall’alto». Quell’ascensione segreta Hans non la raccontò a nessuno: nemmeno a sua madre che morì due anni dopo, senza sapere mai di quell’«impresa».
«Avevo paura di essere punito, e restai zitto. Mia mamma poi era una donna ansiosa, perennemente in apprensione per i figli. Non ho mai potuto rivelarle niente perché si sarebbe agitata troppo, non mi avrebbe mai permesso di scalare una montagna!».
Su quella cima tutto sembrava diverso. Regnava il silenzio e si potevano osservare la Marmolada, il gruppo del Sella e le Tre cime di Lavaredo: «Quelle vette le avevo viste solo sulle cartoline. Fino a quel momento erano state proprio le montagne ad avermi chiuso l’orizzonte, ma capii che bastava salire un po’ più in alto per vedere di più». Da quel giorno Hans dedicò tutto il tempo libero a scalare le vette dei dintorni. Cominciò il suo «sentiero ripido». Giri spericolati, a volte temerari, con l’idea fissa di imparare a scalare bene, e magari diventare un po’ conosciuto, come i tre tedeschi che nel gennaio 1963 scalarono la parete Nord della Cima Grande di Lavaredo, impresa seguita per radio con grande entusiasmo dal piccolo Hans.
«Nella mia carriera sono arrivato in vetta a centinaia di montagne, ma non mi è mai più capitato di sentire la leggerezza e le sensazioni che ho provato sul Moosstock. Quella resta l’unica cima che ho scalato per me stesso: gli Ottomila, le pareti conquistate in questi anni sono stati traguardi importanti messi tutti ’in vetrina’. Il Moosstock l’ho custodito nel mio cuore di bambino».
Quella vetta scalata marinando la scuola servì al giovanissimo Hans a fargli intuire quale sarebbe stata la sua strada. «Se quel giorno non avessi capito la mia vocazione sarei finito a fare il pastore o il muratore per sempre». Adesso è lo stesso Kammerlander che ammette: «Ho scalato in tutto il mondo, sempre senza ossigeno. Ho ancora molti progetti, ma molto più tranquilli. Ho 53 anni e so che non tornerò su un Ottomila. Anche per me inizia la curva discendente della vita, come è naturale. Ma non posso che essere orgoglioso di quello che ho fatto».
Guarda dalle finestre del suo ufficio, che è anche un piccolo museo delle sue imprese. Il segno della gratitudine della sua gente è in strada: tre anni fa, quando ha compiuto 50 anni, Campo Tures gli ha intitolato la piazza principale del paese. «E sono ancora vivo!» sottolinea ridendo. «Mi hanno spiegato che vie e vicoli si possono dedicare solo a persone morte, ma il vincolo non esiste sulle piazze, e così…». Intanto il cellulare di Sigi non smette di squillare: giornalisti, sponsor, alpinisti che cercano Hans come guida. Chiama anche Stefano Domenicali, il team manager della Ferrari. «Sono amici e Hans lo accompag nerà in un trekking», spiega Sigi. «Credo che oggi con tante imprese alpinistiche alle spalle non debba più dimostrare niente a nessuno. Ma quando avrò 88 anni voglio salire ancora sul Moosstock e osservare il mondo da quella montagna. Voglio riflettere su cosa sono stati i miei ottanta anni da alpinista. In fondo tutto è nato da lassù ».