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 2009  agosto 19 Mercoledì calendario

Quel modo di raccontare i grandi per esperienza diretta- Quando a metà degli anni Cinquan­ta scrivevo la mia tesi di laurea su Francis Scott Fitzgerald, mi venne naturale per prima cosa andare a parlare con Nanda Pivano a Milano

Quel modo di raccontare i grandi per esperienza diretta- Quando a metà degli anni Cinquan­ta scrivevo la mia tesi di laurea su Francis Scott Fitzgerald, mi venne naturale per prima cosa andare a parlare con Nanda Pivano a Milano. Le feci, da laureando, delle domande piuttosto sciocche: se conosceva Cesare Pavese; co­me aveva imparato l’inglese; cosa l’attrae­va in Fitzgerald, lei che amava tanto Er­nest Hemingway. Forse più imbarazzata lei di me – era­vamo entrambi molto giovani – mi ri­spose con quel sorriso dolce e aperto che le avrei sempre ritrovato sul volto, una difesa ma anche una sapiente sfida. E un modo per ricordare il suo primo ruolo, la sua prima conquista: era, e ri­mase per decenni, fino ad oggi, il nostro primo tramite per avvicinarci alla lettera­tura d’Oltreoceano, una via d’accesso per luoghi favoleggiati, che lei si era aperti da sola e conquistati con l’arrendevolez­za. Arrendersi con semplicità agli altri, e alla letteratura, non è da molti. Accostarsi alla letteratura americana era stata per autori come Pavese ed Elio Vittorini un’avventura della mente, tutta culturale e politica (nessuno dei due in­fatti andò mai in America, anche quan­do divenne possibile, per scelta, timore o diffidenza). Per Nanda Pivano dev’es­ser stata prima di tutto un’avventura del cuore e degli affetti; e si basò su una co­noscenza diretta, dei luoghi e delle per­sone. Ne fu un’interprete diretta, partecipe, coinvolta: sembra quasi di poter dire che prima doveva conoscere personalmente gli scrittori e l’ambiente, per poi poterne scrivere o tradurli, trasmetterne messag­gio e presenza al grande pubblico dei let­tori italiani. Il caso del suo rapporto con Hemingway è esemplare al riguardo: ne era «figlia», come lui era «papà», e in­dubbiamente senza quel tipo di rappor­to ravvicinato, molta della sua freschez­za e confidenza coi testi letterari sarebbe scomparsa. Ha tradotto i grandi classici – Her­man Melville, Emily Dickinson e molti al­tri – e scritto su di loro con sensibilità estrema naturalmente, ma a me sembra che la sua grande lezione sia stata quella di indurci a trattare dello scrittore e del­la persona come di una cosa sola, di un amico: una lezione particolarmente im­portante, originale, svolta proprio nel momento in cui l’accademia si appro­priava «scientificamente» della letteratu­ra americana, e prevaleva la tendenza al­lo studio asettico e subliminale del testo in sé. Sbarazzina e come finta ingenua, ma attenta alle particolarità e all’eleganza della scrittura di tanti e tanti testi poi di­venuti «classici», Nanda Pivano divenne conoscitrice e guida, per due o tre generazioni di lettori, di due o tre generazio­ni di letterati americani, che scovava e conosceva personalmente; dai Beat, in­tuendo fin da allora la carica non solo eversiva e ribalda, ma umana e letteraria di scrittori come Allen Ginsberg, Jack Ke­rouac, Gregory Corso, ai «minimalisti», che fu lei a diffondere, se non quasi a in­ventare, in Italia come a New York, dove si recava sempre più spesso, accolta co­me una dei «loro». La attiravano, sì, i protestatari e gli «eversivi» – William Burroughs, Char­les Bukowski e altri – perché detestava i paludamenti in cui la letteratura «arri­vata » tende ad avvolgersi, i falsi o timoro­si moralismi dei più, ma anche perché capiva che il grido, la provocazione o lo sberleffo sono modi di esprimere l’ango­scia e lo strazio della coscienza contem­poranea. Nel bel mezzo di autori e testi «scandalosi», lei conservava un suo ac­cattivante lindore, una purezza d’animo e di cuore, una modestia di ragazzina, e la fedeltà alla prima decenza – quella della comprensione e dell’amore per le persone. Al suo meglio, credo, per natura, di­sposizione e scelta, nel saggio, nella trat­tazione breve, nell’articolo compendio­so, ci insegnò soprattutto il valore della letteratura come esperienza di vita, la po­chezza dell’una se scissa dalla partecipa­zione all’altra. I suoi libri sono frutto di frequentazioni assidue e ripetute, di im­pressioni e valutazioni elaborate in pri­mo luogo nello sforzo di un’ampia com­prensione. Ha avuto tanti e meritati riconosci­menti per questo suo ruolo, per la sua presenza sempre più diffusa nella nostra cultura, da istituzioni e lettori. Non ha avuto – perché non lo cercava e le sareb­be andato stretto, non avendo granché da darle – il riconoscimento dell’accade­mia: ed è stato meglio così. Con la sua dolcezza che nascondeva forza di appro­priazione e tenacia nello scoprire, Nan­da Pivano ha segnato il momento in cui la critica militante ha affiancato con au­torità, e magari soppiantato, la critica to­gata, sussiegosa, «disinteressata» per scarsa vocazione al vivere. Non saprei darle attestato migliore: lei era tutto il contrario.