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 2009  agosto 19 Mercoledì calendario

IO, UNO DEI BAD BOYS ISCRITTO DA LEI NEL CLUB DEI FAMOSI


La prima volta che l’ho incontrata, Fer­nanda Pivano era impegnata a difende­re con passione un romanzo americano. Ero a Palermo con una delegazione di scrittori che partecipava a un festival letterario so­vietico- americano. Se non sbaglio, l’evento era or­ganizzato dalla sezione italiana del Pen, l’associa­zione internazionale degli scrittori. Eravamo an­cora in piena guerra fredda. E immagino che quel convegno si proponesse di aprire spiragli di co­municazione culturale tra i due imperi nemici. Tra i miei colleghi c’era Robert Stone, e c’era an­che David Leavitt. I sovietici erano tutti membri dell’Unione degli scrittori e tendevano a essere stalinisti inflessibili, più interessati a criticare il capitalismo che a occuparsi di letteratura. Per cui passarono quasi tutto il tempo a criticare Il gran­de Gatsby perché il protagonista era ricco, e non cambiarono idea neanche quando parlammo di ironia e di critica sociale. Tra il pubblico c’era una persona che con grande efficacia mise in ridicolo le posizioni del partito sovietico – una signora che non avevo mai visto prima. Venni poi a sape­re che aveva tradotto Il grande Gatsby e che quin­di lo conosceva quanto gli scrittori americani, se non di più. Me me la presentò Robert Stone: si chiamava Fernanda Pivano.

Più volte, negli anni successivi, ho avuto modo di raccontare quell’episodio, e di scriverne. Vo­glio farlo anche oggi che Nanda non c’è più. Da quel che ricordo era molto più chic della maggior parte dei noiosi letterati che avevamo intorno, ed era piena di entusiasmo, e di energia verbale. Ro­bert, che conosceva scrittori come Allen Gin­sberg e Jack Kerouac, mi informò che Fernanda era una grande amica e una sponsor degli scritto­ri americani della Beat Generation, e che aveva tradotto Urlo , e Sulla strada . Era evidente che la considerava una personalità importante, quasi sa­cra. Solo in seguito appresi che il suo pedigree di principale sostenitrice della letteratura america­na in Italia risaliva a Hemingway. Se allora lo aves­si saputo, sarei stato troppo intimidito per parlar­le. Sta di fatto che mi prese sottobraccio e mi por­tò fuori per fare una chiacchierata. Disse che vole­va sapere tutto di me.

In quegli anni i miei libri non erano ancora sta­ti tradotti in italiano e pochissimi dei partecipan­ti al festival sapevano chi fossi. Il mio primo ro­manzo, Le mille luci di New York , stava riscuoten­do un grande successo negli Stati Uniti ed era sta­to acquistato da importanti editori in Europa, ma i miei agenti non riuscivano a trovare nessuno in Italia che volesse tradurlo.

Conversammo per parecchie ore, mentre sovie­tici e americani si accapigliavano in un’altra sala. Discutemmo soprattutto di letteratura america­na, dal modernismo in poi. Parlammo di Hemin­gway, che lei aveva tradotto durante il fascismo, quando era vietato. Ero affascinato dalla sua pa­dronanza di quello che consideravo il filone prin­cipale della narrativa americana del XX secolo. Di­versamente dalla maggior parte dei critici, sem­brava capire la profonda importanza del rock nel­l’evoluzione del gusto americano contempora­neo e aveva fatto amicizia, tra gli altri, con Lou Reed e Bob Dylan. La misi a parte delle mie lettu­re e delle mie opinioni su di esse, ricordo di aver­le parlato del mio amico Bret Easton Ellis, anche lui non ancora tradotto in italiano.

Durante quella settimana ci incontrammo an­cora diverse volte, a Palermo e poi a Taormina, e passammo insieme gran parte di quelle giornate. Avevo perso interesse per il convegno, le discus­sioni con Fernanda erano molto più stimolanti. Quando giunse il momento di partire, dissi che volevo passare qualche giorno a Roma e lei mi consigliò di andare all’Hotel d’Inghilterra, che era stato l’hotel preferito di Hemingway. Poco dopo essere tornato a New York, ricevetti una telefona­ta dalla mia agente letteraria. Mi informava che in Italia era improvvisamente scoppiato un gran­de interesse per il mio libro. La settimana succes­siva al nostro incontro a Palermo, Fernanda ave­va letto Le mille luci di New York e ne aveva scrit­to sul «Corriere della Sera»: mi paragonava ad al­tri noti scrittori americani.

Fu grazie alla sua influenza che mi trovai im­provvisamente trasformato in un grande scritto­re americano ancor prima di essere tradotto in italiano (poi fece altrettanto per Bret).

Essere adottati da Fernanda fa un po’ paura, è difficile sentirsi degni di far parte del suo univer­so di giganti letterari. Quel che era forse più note­vole in lei era che, a differenza di alcuni grandi critici come Edmund Wilson, apparentemente in­capaci di capire le opere degli scrittori apparte­nenti a una generazione successiva alla loro, Fer­nanda ha continuato fino all’ultimo a leggere, ap­prezzare e sponsorizzare i giovani autori.

La nostra amicizia è rimasta viva negli anni. Siamo stati assieme a molti party, e credo di es­sermi a volte comportato in modo piuttosto scon­veniente, ma Fernanda giudicava male solo chi scrive male, e io mi consolo pensando che nei molti anni passati a far conoscere i cattivi ragazzi della letteratura americana deve aver visto ben di peggio. Tutti sanno che Hemingway cercò di se­durla. Come si potrebbe biasimarlo? Lei mi ripete­va spesso, e non senza una nota di rimpianto, di aver rifiutato le sue avance, ma mi piace credere che volesse solo essere modesta e discreta, come era nel suo stile.

La sua morte è una grande perdita per la lette­ratura americana, per la cultura italiana e per tut­ti quelli che hanno avuto la fortuna di esserle ami­ci. Dubito che vedremo di nuovo critici o lettori appassionati come Fernanda Pivano.

(Traduzione di Maria Sepa)