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 2009  agosto 19 Mercoledì calendario

LA POLEMICA SUI DIALETTI


L’italiano, una lingua democratica

Il guaio dell’età che avanza – parlo per esperienza – è soprattutto la noia . Quella di chi subisce il ciclico ritorno degli stessi dibattiti, degli stessi temi, degli stessi equivoci. naturale: ogni generazione deve ricominciare da capo. Ma, per il povero anziano, è pur sempre tedioso. Tra i «tormentoni» ricorrenti, ecco di nuo­vo, in queste settimane, la questione – rin­focolata periodicamente dalla Lega – del rapporto tra lingua nazionale e dialetti loca­li. Qui, i seguaci di Bossi hanno un grosso, irrisolvibile handicap rispetto a molti movi­menti stranieri federalisti o separatisti. In ef­fetti, non vale per l’Italia quanto - osservava Ernest Renan - è vero per altri grandi idiomi. Il francese imposto da Parigi a occitani, bre­toni, normanni, còrsi, alsaziani, lorenesi. Il castigliano imposto da Madrid a catalani, ba­schi, valenciani, galiziani, aragonesi. L’ingle­se imposto da Londra a gallesi, scozzesi, ir­landesi. Il russo imposto da Mosca a ucraini, bielorussi e altre etnie slave. Il mandarino di Pechino imposto a tutti i cinesi. Due sole, grandi lingue, divenute ufficiali per uno Sta­to, non sono state imposte a popolazioni in parte riluttanti: il tedesco e l’italiano. En­trambe sono, per dir così, «democratiche». Per comunicare tra loro, le genti germani­che, prive di unità politica, dopo un lento av­vicinamento degli infiniti dialetti, decisero di adottare, almeno per la scrittura, il sasso­ne aulico in cui Lutero tradusse la Bibbia . Quanto all’Italia, anch’essa frammentata, eb­be solo tardivamente uno Stato, ma fu preco­cemente una «nazione». A partire dal tardo Quattrocento, chi abitava la Penisola era di­stinto dagli altri popoli come un «italiano». Ma già nel Medio Evo, tra le «nazioni» rico­nosciute in Europa – ad esempio, nelle uni­versità e nelle corporazioni di mestiere – c’era quella «italiana». Sta soprattutto nella lingua il motivo di questa identità, malgrado lo spezzettamento politico e le forti differen­ze di ogni tipo tra le Alpi e lo Jonio.

Ebbene, spesso si dimentica che, se in Ita­lia si parla e si scrive così, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di governo e, so­prattutto, di cultura , di ogni angolo di quel­lo che solo molti secoli dopo sarebbe divenu­to uno Stato. In Italia non ci fu una Capitale dove sedesse un’autorità che imponesse un dialetto locale divenuto lingua ufficiale per le leggi, i tribunali, l’esercito. Da noi, ancor più che in Germania, l’idioma comune fu una sorta di referendum, fu il frutto di una decisione pragmatica che si impose libera­mente: poiché, divenuto sempre più arduo esprimersi in latino, occorreva una koiné ita­lica, i gruppi culturalmente e politicamente dirigenti finirono coll’accordarsi (prima nei fatti, e poi nelle teorie dei dotti) sulla varian­te di volgare illustrato dalla triade sublime, Dante, Petrarca, Boccaccio. Così, fu il dialet­to toscano, e in particolare fiorentino, che di­venne la lingua franca per gli scambi, la lette­ratura e poi la cultura in generale. Lingua «democratica», dunque, e al contempo «ari­stocratica » nel senso che, sino all’unità poli­tica, fu soprattutto scritta da chi sapeva di lettere. Ci vollero non tanto la scuola obbli­gatoria quanto prima l’Eiar e poi la Rai, non­ché il sonoro nei film, per trasformarlo in un idioma praticato da tutti, o quasi.

Sta di fatto che – a differenza di un catala­no nei confronti di un castigliano o di un provenzale nei confronti di un parigino o di uno scozzese nei confronti di un londinese – nessuno, di nessuna regione italiana, può accusare uno Stato o un Potere di avergli im­posto un idioma che, dalla sua, ha avuto semmai solo la forza della cultura. Firenze nulla fece, se non approfittare del talento dei suoi grandi scrittori. Quanto agli attuali «padani», pur comprendendo alcune delle loro ragioni, non dimentichino che, tra Otto­cento e Novecento, coloro che più fecero per dare una lingua moderna a tutti gli abitanti della penisola, facendoli uscire dai dialetti e dal toscanismo angusto, furono il lombardo Manzoni, il ligure piemontesizzato De Ami­cis, il saluzzese Pellico, il torinese d’Azeglio, il dalmata Tommaseo, il veneto Fogazzaro, il romagnolo Pascoli, il genovese Mazzini. E che, ancor prima, l’astigiano Alfieri, il subal­pino Baretti, i milanesi Verri e Beccarla, mol­to avevano fatto per radicare la lingua comu­ne. Per tornare all’Ottocento, il parmigiano Verdi, malgrado offerte di francesi, inglesi, tedeschi, rifiutò di musicare libretti che non fossero in italiano; e persino il «federalista» lombardo Carlo Cattaneo accettò di buon grado la scelta del toscano, in cui scrisse in modo impeccabile, irridendo ai passatismi dialettali. Non irrisione, ma furore, provoca­vano nel nizzardo Garibaldi coloro che met­tevano in discussione l’unità dell’idioma. Morì accanto a lui, all’assedio di Roma, il ge­novese Mameli, che aveva cantato l’unione di «Fratelli d’Italia» in tutto, a cominciare dalla lingua. Tutti «padani» o, almeno, «nor­disti »; e tutti contro la babele vernacolare, anche la loro.

« la storia, bellezza!», verrebbe da celia­re con chi si ostinasse a barricarsi sotto il suo campanile, inveendo contro una lingua che gli sarebbe stata imposta da qualche pre­potente forestiero. colpa, o merito, della storia se non si dice un chimerico «pada­no », ma neanche un «lombardo» (si capisco­no, forse, uno di Sondrio e uno di Cremona, uno di Bergamo e uno di Pavia ?) e, se altri idiomi di altre regioni italiane, al Centro e al Sud, esistono, ma non sono praticabili come lingue. Ciò non toglie che i dialetti siano una ricchezza: posso dirlo anche perché, se mi è permesso un riferimento personale, mio pa­dre fu tra i più popolari e, credo, dotati, poe­ti in modenese. Ma è una ricchezza ancor maggiore lo strumento divenuto pian piano comune, in quasi mille anni, ad almeno 60 milioni di persone. Per forza propria, senza bisogno di decreti governativi tutelati dai gendarmi.